VALERIO PELLIZZARI, La Stampa 4/5/2011, 4 maggio 2011
Le due verità di Islamabad - La notte della cattura di Bin Laden la città di Abbottabad rimase senza luce per alcune ore, prima che arrivassero gli elicotteri americani
Le due verità di Islamabad - La notte della cattura di Bin Laden la città di Abbottabad rimase senza luce per alcune ore, prima che arrivassero gli elicotteri americani. Ma il presidente pachistano Zardari ha detto pubblicamente che quella «non è stata una operazione congiunta». Ragionevolmente si deve credere che qualcuno in ogni caso ha girato l’interruttore e lasciato al buio l’obiettivo principale e tutto il resto della città, facilitando così l’impresa del commando. Ma questa è solo la prima domanda in attesa di una risposta chiara e definitiva, che non contraddica le affermazioni precedenti. Circa dieci giorni prima della cattura il capo di stato maggiore delle forze armate pachistane, il generale Kayani, aveva visitato proprio l’accademia militare di Abbottabad, aveva esaltato il ruolo dei suoi soldati nel contrastare i militanti islamici, e mentre pronunciava queste parole l’uomo più ricercato del mondo stava solo a pochi passi di distanza. Inoltre, sempre la notte in cui arrivarono gli elicotteri, i soldati pachistani erano stati dislocati attorno alla residenza di Osama con il pretesto di una esercitazione notturna, che iniziava casualmente due ore prima dell’attacco, e durante la quale sapevano sarebbe mancata la luce. Un vecchio detto della diplomazia inglese riassume la regola base della professione: «Negare e mentire». In questo momento delicato, carico di pesanti incertezze, i pachistani sono i primi ad avere bisogno di questa formula inventata dai loro vecchi colonizzatori: non possono contestare la ricostruzione del presidente americano, ma non possono nemmeno rinunciare all’orgoglio nazionale. Mentre India e Afghanistan meno di altri vogliono credere alla loro flebile vigilanza, al morbido assedio attorno a Bin Laden. Un funzionario di polizia pachistano inviato tra i primi nella casa-rifugio, anonimo come molti di quelli che commentano la vicenda, ha detto ai cronisti locali che restano molte cose da chiarire. E parole simili, ma rivolte ad una platea molto più ampia, ha detto il primo ministro inglese. Mentre il capo della Cia, Panetta, ha riassunto bruscamente la qualità dei rapporti tra i due alleati: «Temevamo che i pachistani avvertissero Bin Laden». I potenti servizi segreti di Islamabad, considerati da tutti un autentico Stato dentro lo Stato, e secondo alcuni il potere più forte in questo Paese, ieri hanno diffuso un comunicato sorprendente, dove dichiarano di essere «imbarazzati» per tutta la vicenda. È come ammettere che le spie dell’Isi non sanno fare le spie, o che altri dentro il Paese boicottano il loro lavoro. Ai tempi dell’Emirato afgano, quando governavano i talebani, tra il 1996 e il 2001, e la capitale di quel Paese si era trasferita di fatto da Kabul a Kandahar, i telefoni di quella città avevano il prefisso di una provincia pachistana. E tutti sanno che quella annessione era stata ideata e realizzata fisicamente proprio dal marchio Isi. Oggi, dopo la pubblica dichiarazione di imbarazzo, il potere-ombra pachistano sembra ammettere un fallimento. O promettere piuttosto un regolamento di conti tra governo, militari ed intelligence. Ciascuno dei tre, in dosi diverse, nega e smentisce quello che affermano gli altri due. Anche sul modo in cui Bin Laden è stato ucciso c’è posto per un’ipotesi in contrasto con la versione di Washington. Il giornale Dawn sostiene che secondo un esperto pachistano, arrivato nella casa della cattura dopo la partenza degli americani - che si sono portati via probabilmente tutte le testimonianze imbarazzanti - il capo di Al Qaeda sarebbe stato ucciso non dal commando ma da un suo fedelissimo, incaricato da tempo di eliminarlo per impedire la cattura, i successivi interrogatori, la stessa umiliazione imposta a Saddam davanti alle telecamere, esibito sporco e inebetito, mentre gli veniva ispezionata la bocca. Ma un esperto di testi religiosi ieri spiegava che chiedere di essere ucciso da un’altra persona è come commettere suicidio, e quindi violare la legge del Profeta. Tra le domande che non trovano risposta c’è la tranquillità goduta dal proprietario della residenza riservata a Bin Laden. Ufficialmente è un ricco trasportatore del Waziristan, la provincia tribale più caparbia e ostile verso il governo di Islamabad, e ancora più ostile verso i soldati pachistani e quelli stranieri che si aggirano in quelle contrade. Il padrone di casa di Osama si è dileguato per tempo. Ma attorno a quella residenza c’è un’enfasi instancabile, che ricorda a ripetizione il muro di cinta troppo alto per non creare da solo legittimi sospetti. In realtà proprio i personaggi potenti che vivono nelle zone tribali hanno l’abitudine di nascondere le loro case, i loro giardini, la loro vita quotidiana, dietro muri molto alti, dove non c’è una sola feritoia, tagliati solo da un portone di ferro, anche questo senza fessure. Dietro quella protezione, perché il prestigio da esibire non è mai troppo, sistemano anche pezzi di artiglieria perfettamente funzionanti. Lungo il Khyber pass il direttore di un ministero, oggi in missione all’estero, appartenente alla tribù degli Afridi, teneva in giardino una contraerea inglese della Seconda guerra mondiale, bene oliata e ben protetta da un telo cerato. Il suo vicino, anche lui con un incarico autorevole a Islamabad, disponeva invece di un mortaio cinese, di costruzione più recente, immerso tra i melograni. Per questo quando un trattore ha trascinato via dalla casa di Osama un carico ingombrante, nascosto da un grande telo, qualcuno ha creduto di intravedere un pezzo di artiglieria, mentre altri hanno immaginato i resti di un elicottero americano caduto. Tra i misteri di breve durata, ma di effetto perverso, che creano una eccitazione volatile, c’è la foto di Bin Laden ucciso, diffusa da un canale televisivo locale. Confrontata con una immagine del 1988 si vede perfettamente che è la stessa foto, ritoccata con mano pesante e macabra insieme. Un gioco da ragazzi per gli esperti di elettronica, ma quell’immagine nelle mani di qualche predicatore fanatico dentro la moschea, sventolata nei cortei, o semplicemente venduta sui banchi del mercato, alimenterà per poche rupie la leggenda del martire. Difficile raccontare che è una delle tante invenzioni distribuite in questi giorni, dentro questo Paese.