Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  maggio 04 Mercoledì calendario

PAKISTAN, QUEI TRE POTERI CON CUI GIOCAVA OSAMA


L’ inafferrabile icona del terrorismo jihadista è stata infine presa e uccisa. Cercato per anni con ogni mezzo possibile fra le montagne inaccessibili al confine fra Pakistan e Afghanistan, Osama Benladen stava in una comoda residenza urbana, a poche decine di chilometri da Islamabad.

Inevitabile, quindi, porsi la domanda sulle complicità del Pakistan in questo lunghissimo periodo di latitanza e sul ruolo da esso giocato per la sua cattura. E, allo stesso tempo, riflettere su che cosa succederà ora nelle relazioni con Washington.

I troppi centri di potere

Limitarsi a osservare la superficie della politica quotidiana non giova all’analisi di uno Stato i cui meccanismi di potere sono ben più intricati. Si parla spesso di una ciclicità del potere nel Pakistan: dalla sua nascita nel 1947 vi è sempre stata una alternanza continua di governi civili e militari. Oggi, dopo la lunga parentesi del governo del generale Pervez Musharraf, vi è di nuovo un governo civile. Ma né il presidente Asif Ali Zardari, né il primo ministro Gilani sembrano in grado di imporsi sui militari, i quali mantengono una fortissima autonomia decisionale. Viaggiando per il Pakistan, questa dicotomia è chiaramente avvertibile nella stessa organizzazione degli spazi urbani: i militari hanno cittadelle riservate e separate ’dal mondo civile’; scuole, ospedali e finanche strutture produttive a loro riservate. È in uno di questi compound che si nascondeva Benladen: un particolare che rende molto poco credibile l’idea che l’intelligence pachistana non sapesse nulla.

Questa dualità civili-militari rende poi le azioni di Islamabad più difficili da decifrare, dato che le comunicazioni e lo scambio di informazioni fra vertici militari e vertici politici sono spesso parziali o ’addomesticate’. Vi è infine – ad aggiungere complessità e confusione – un altro centro di potere quasi autonomo, ossia i potenti servizi segreti militari, l’Isi (Inter Services Intelligence) – i creatori dei taleban agli inizi degli anni 90 – oggi guidati dal generale Shuja Pasha.

Formalmente agli ordini del governo e del comandante delle Forze armate, sono in realtà un centro di potere ramificato, opaco e ben poco controllabile.

Sotto di loro vi è quella zona grigia di operazioni illegali, finanziamenti occulti, coinvolgimento in traffici illeciti – compreso l’enorme flusso di oppio che dall’Afghanistan raggiunge l’Oceano indiano attraverso la regione del Baluchistan – legami tribali, clanici e religiosi. Spesso, nelle missioni all’estero più importanti – come una recente visita a Kabul, per L

eon Panetta è stato fin troppo esplicito. «Gli Stati Uniti – ha detto in un’intervista a Time – non hanno informato il Pakistan perché era­no preoccupati che potesse danneggiare l’intera operazione, avvi­sando il bersaglio». Il capo della Cia ha dato così corpo a tutti i sospetti che sono aleggiati sulle complicità di componenti dei vertici di Islama­bad con Osama Benladen. Tanto che adesso il Senato americano non e­sclude di poter ridurre i nuovi finanziamenti al Paese asiatico per 1,3 mi­liardi di dollari se emergesse che apparati dello Stato abbiano dato pro­tezione allo sceicco del terrore. Da parte sua, il presidente Ali Zardari ha confermato che le forze armate pachistane non sono state coinvolte nel blitz condotto ad Abbottabad, ne­gando però con decisione che esistano complicità pachistane nella lati­tanza del capo di al-Qaeda. Ieri grandi sorrisi, strette di mano e ottimi­smo hanno segnato ad Islamabad la ripresa dei colloqui trilaterali sulla sicurezza nella regione fra Usa, Afghanistan e Pakistan, segno della vo­lontà manifestata da più parti di archiviare al più presto l’uccisione di O­sama come «una svolta» nella lotta al terrorismo che contribuirà a raffor­zare la pace nella regione. Il Pakistan è «sotto tiro» per l’imbarazzante presenza da anni sul proprio territorio del nemico pubblico numero uno. Il ministro degli Esteri fran­cese Alain Juppè, in attesa di incontrare il premier pachistano Yousuf Ra­za Gilani in visita a Parigi, ha dichiarato che «la posizione del Pakistan man­ca di chiarezza. Ho un po’ di difficoltà a immaginare che la presenza di u­na persona come Bin Laden in un ’compound’ importante in una città relativamente piccola sia potuta passare completamente inosservata». Ma gli stessi 007 dell’Isi ammettono il proprio «imbarazzo» per la para­dossale situazione sfuggita al proprio controllo ad Abbottabad. Un fun­zionario anonimo ha confermato alla Bbc di non poter facilmente giu­stificare la mancata sorveglianza di quello che negli ultimi anni era di­ventato il rifugio del leader di al-Qaeda. Tuttavia, l’Isi rivendica di aver ar­restato in un primo momento Abu Faraj al-Libi, che gli americani consi­derano oggi la pedina più importante che ha portato alla residenza di Benladen. È lui, hanno spiegato fonti Usa al New York Times, ad aver sve­lato

la rete di corrieri e messaggeri dello sceicco.

migliorare le claudicanti relazioni con il presidente afghano Hamid Karzai – si sposta una troika composta proprio dal primo ministro Gilani, dal comandante in capo delle Forze armate, generale Parvez Kayani, e dal direttore dell’Isi. Una troika impensabile in uno stato occidentale, ma che rivela la pluralità del potere e la difficoltà di parlare a una sola voce.

La penetrazione islamica

I legami del Pakistan con i taleban e con i movimenti islamici radicali sono così noti da non dover forse neppure essere ricordati. Tale affermazione, però, non riesce a far percepire le difficoltà che hanno avuto i pachistani ad ’abbandonare’ le milizie islamiche afghane e i movimenti jihadisti al loro destino. Dagli anni 80 in poi, tutti i centri di potere pachistani – partiti e ministeri, forze armate, Isi – sono risultati estremamente permeabili alla penetrazione islamica. Alcuni capi dell’intelligence, negli anni 90 non solo proteggevano e appoggiavano le milizie radicali, ma ne condividevano gli obiettivi di fondo e la visione dogmatica della religione.

Erano insomma islamici radicali essi stessi: una degenerazione molto più grave e pericolosa della semplice convergenza di interessi.

Dopo gli attentati del 2001, Washington ha forzato Islamabad a troncare questi legami. Non vi è mai riuscita realmente, proprio perché la ’talibanizzazione’ e l’islamizzazione dei centri di potere pachistani era troppo profonda. E questo a prescindere dalla volontà reale del governo centrale o dei vertici militari: la diffidenza degli americani nell’informare gli incerti alleati delle loro operazioni contro al-Qaeda o i taleban si spiega anche con la consapevolezza dell’incapacità dei pachistani di evitare fughe di notizie e ’tradimenti’.

La costante geopolitica afghana

Molti analisti si stanno interrogando se Benladen sia stato venduto o meno da Islamabad e a che prezzo. Forse una risposta chiara non l’avremo mai. Ma certo la sua morte risolve più problemi di quanti ne crei. I pachistani vogliono contare nel processo di pacificazione che faticosamente si sta cercando di portare avanti in Afghanistan, ove la vittoria militare definitiva della Nato è ormai impossibile.

Gli stessi Stati Uniti si sono messi a trattare direttamente con alcuni elementi della galassia talebana, un’etichetta che nasconde una pluralità di movimenti e di interessi. Per contare veramente, il governo e i militari pachistani hanno capito che devono cercare di ’sganciarsi’ dal sostegno dato al nucleo storico dei guerrieri del Corano e liberarsi dei fantasmi del passato jihadista.

Solo così potranno pensare di riprendere parte della propria influenza nel Paese vicino, obiettivo che è una costante della strategia di Islamabad, in vista di un accordo fra il governo di Kabul, la Nato e i gruppi talebani meno ideologizzati.

Come ha detto qualcuno, forse Washington temeva di catturare Osama vivo, ma per Islamabad ciò rappresentava l’incubo peggiore. Il rischio è che ora emergano scoperte imbarazzanti dai documenti sequestrati nel suo covo. Per la Casa Bianca sarebbe allora difficilissimo ’coprire’ politicamente l’alleato, già da tempo oggetto di attacchi dai media e impopolare fra i membri del Congresso, che hanno approvato molto di malavoglia un nuovo round di aiuti. Insomma, non è detto che le ombre dello scomodo e imbarazzante passato del Pakistan non tornino a gettare nuove ombre sul suo incerto futuro.