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 2011  maggio 01 Domenica calendario

QUELL’ARTICOLO 1 SCRITTO DA CHI PENSAVA AL FUTURO

Aveva l’occhio rivolto al futuro l’Assemblea costituente quando scrisse, nell’articolo 1, che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. E lo aveva ancora di più di altri costituenti del XX secolo, i quali, dalla nuova realtà del 900, avevano tratto l’affiancamento dei più tradizionali diritti di libertà con i diritti sociali e quindi con la protezione dei lavoratori dipendenti (per una Repubblica fondata sui diritti di libertà e sui diritti del lavoro era da noi un emendamento La Malfa, di cui ho letto in questi giorni citazioni incomplete e quindi scorrette).
Ci sarebbero stati anche i diritti sociali nella nostra Costituzione, ma - come scrisse Costantino Mortati- ciò che si volle fu pregiudizialmente affermare qualcosa di più generale e onnicomprensivo di quanto non fosse la protezione dei lavoratori dipendenti. Si volle affermare cioè il valore del lavoro come veicolo attraverso il quale ciascuno potesse esprimere la sua capacità creativa, la valorizzazione di sé e allo stesso tempo il proprio contributo alla crescita della società in cui vive. Per ciò stesso si intese così stabilire che nulla al di fuori del proprio lavoro avrebbe legittimato nella nuova Italia riconoscimenti di status o di condizioni più favorevoli. Non sarebbe bastato perciò essere ariani anziché ebrei, nobili anziché plebei, ricchi anziché poveri. I titoli di cavalieri del lavoro, al posto dei titoli nobiliari, trovano qui il loro primo fondamento. Ed è sufficiente questo a sottolineare che non c’è nell’articolo 1 alcun connotato classista, che fu anzi esplicitamente scartato proprio perché il testo vigente resistette a un emendamento, presentato da una pluralità di Costituenti prevalentemente di sinistra, che definiva l’Italia una «Repubblica democratica di lavoratori».
Ma non c’era soltanto il futuro nell’impegnativa affermazione dell’articolo 1. Essa raccoglieva e raccoglie anche il meglio della storia precedente italiana, nella quale la costruzione stessa dell’Unità e il consolidamento dell’identità nazionale sono fortemente legati al ruolo del lavoro e dei suoi diversi protagonisti.
Cavour e il progresso
Aveva scritto Cavour nel suo primo articolo sul «Risorgimento», il 15 dicembre 1847, che il progresso e il benessere della società sono nello sviluppo dell’industria e quindi, in primo luogo, nel ritorno «di quell’impegno, quell’operosità, quell’energia di quando le fabbriche fiorentine e lombarde, quando i navigli di Genova e Venezia non avevano rivali in Europa». Ma l’industria moderna, quella che si avvale delle ferrovie per movimentare i suoi prodotti e che prospera nel libero commercio internazionale, ha bisogno di uno spazio nazionale per crescere. Insomma, come ha scritto Rosario Romeo nella «Conclusione» della sua opera su Cavour, l’unità nazionale era per lui la cornice essenziale per «l’avvento della borghesia dell’impresa, alla quale spettava, con le banche e le ferrovie, con l’industria e la navigazione a vapore, di aprire le porte del mondo moderno».
Il futuro che Cavour non ebbe tempo di vedere andò nella direzione da lui indicata. E avemmo progressi rilevanti, avemmo imprenditori degni della prima generazione dei Buddenbrook, figure come Alessandro Rossi, Francesco Cirio, Costanzo e poi Eugenio Cantoni, Giovanni Battista Pirelli, uomini venuti a volte da famiglie modeste, che dettero vita non solo a durature imprese industriali, ma facendolo fondarono l’industria italiana. E questo era lavoro.
Ma non c’era stato solo questo negli auspici di Cavour. Nello stesso articolo che prima citavo aveva scritto che «l’edificio industriale che per ogni dove si innalza, giungerà a tale altezza da minacciare rovine e spaventose catastrofi, se non se ne rafforzano le fondamenta, la base principale su cui poggia la classe operaia, col renderla più morale e più religiosa, col procacciarle istruzione più larga e vivere più agiato». Ecco l’altra e più numerosa parte del mondo del lavoro, senza il riconoscimento della quale, con le sue ragioni e le sue esigenze, non solo si metteva a rischio lo sviluppo, ma si rinunciava a dar forza e sostegno alla stessa unità nazionale.
Non poteva però bastare a tal fine la sola responsabilità delle élite dirigenti e non si può far torto a Cavour, pur così preveggente, di essere stato tuttavia uomo del suo tempo, ancora lontano dalla percezione dei conflitti della futura società industriale e dei modi per gestirli. Certo si è che arrivarono le Camere del Lavoro, arrivarono i partiti degli esclusi, prima il partito socialista, poi il partito popolare, arrivarono i legami internazionali del movimento operaio e fu da questo insieme che partì, inizialmente soltanto attraverso scioperi e manifestazioni, la rivendicazione di quel "vivere più agiato" voluto dallo stesso Cavour.
L’era dei conflitti
Avanzata in quelle forme, la rivendicazione parve a larga parte delle nostre élite manifestazione più di eversione che di progresso, più di distacco che di unione. Eppure non poteva che essere questo l’ingresso nella comunità nazionale di chi non ne faceva parte, né per diritto elettorale, né per diritti sul lavoro. Lo capì Giovanni Giolitti, il quale, davanti alle prime celebrazioni del Primo maggio, mentre i Governi (compreso il nostro) le vietavano e arrivavano a vietare le stesse passeggiate per evitare manifestazioni "anarchiche", lesse nelle dimostrazioni operaie e nel loro stesso coordinamento internazionale una reazione a quella «concorrenza fra nazione e nazione, che esercita una azione fortissima nel senso di diminuire la misura dei salari e di peggiorare la condizione degli operai». In tale reazione - proseguiva Giolitti - si esprime «il concetto di un accordo fra nazione e nazione per impedire che la concorrenza diventi oppressiva per il ceto operaio. Una dimostrazione che renda visibile tale accordo non ha in alcun modo carattere anarchico» (il discorso è citato nella Storia del Socialismo Italiano, pubblicata con Einaudi nel 1997 da Renato Zangheri, a p. 425 del secondo volume).
C’era di che scandalizzare i più retrivi, ma era una verità del nuovo tempo. Erano le manifestazioni operaie a interpretare le esigenze della nazione e quanti ne erano partecipi non solo la rafforzavano sul piano economico, ma le consentivano anche di estendere le proprie radici. Più tardi furono proprio i Governi di Giolitti a porre le premesse concrete di tale estensione, dando corpo ai primi diritti sociali e incrinando il censo come presupposto dell’elettorato attivo con la legge del 1912, che conferiva il diritto di voto a chiunque avesse fatto il servizio militare.
È certo vero che le dottrine politiche prevalenti nel movimento socialista del tempo proiettavano i lavoratori ben al di là della nazione, in nome di una lotta di classe che superava i confini nazionali e investiva il capitalismo e il suo futuro nel mondo. Ma se si sa andare oltre l’ideologia, non si può non rilevare che la politicità di cui furono intrise le lotte di allora giovò a dare una connotazione non solo particolaristica, non solo di mestiere alle lotte in cui ci si impegnava e agli stessi organismi di rappresentanza. Fu una connotazione che non ovunque esplicò i suoi effetti, ma di sicuro lo fece in Italia, dove sin dall’inizio le varie categorie di lavoratori dipendenti si composero in forma confederale (nel 1906 nacque la Confederazione Generale del Lavoro) e questo creò le premesse perché non solo l’interesse di categoria, ma anche l’interesse nazionale facesse da parametro della visione e dell’azione dei sindacati e dei lavoratori da essi rappresentati.
Di ciò avremmo avuto nella storia successiva, prima e dopo l’avvento della Repubblica, ripetute testimonianze. Ci fu un momento nel quale il mondo del lavoro, tutto il mondo del lavoro italiano, si impegnò all’unisono per salvaguardare il futuro industriale del Paese. Eravamo alle ultime battute della Seconda guerra mondiale, i tedeschi si stavano ritirando e stavano dimostrando di volersi lasciare terra bruciata alle spalle. Fu in questo clima che, seguendo direttive dei Comitati di liberazione locali a loro indirizzate, tanto gli industriali e i loro dirigenti quanto "apposite squadre interne di fabbrica" (così il Comitato di liberazione piemontese nel febbraio 1945) si fecero carico della protezione e salvaguardia di macchine, apparecchiature e materiali. In concreto gli operai occuparono le fabbriche e in più casi (alla Breda e alla Pirelli di Milano, ad esempio) resistettero ai tedeschi pronti alla distruzione.
Il miracolo italiano
Vennero poi gli anni di quello che è stato chiamato il miracolo italiano. Furono anni nei quali Cavour avrebbe notato il ritorno di quell’impegno, quell’operosità e quell’energia che aveva auspicato per il suo tempo e invidiato agli italiani del tardo Medio Evo. Furono anni nei quali Giuseppe Di Vittorio presentava il Piano del Lavoro della Cgil, dichiarando che «i lavoratori, di fronte ad una azione diretta a promuovere la rinascita economica e civile dell’Italia, pur essendo essi i più sacrificati della società, sono disposti ad accollarsi un sacrificio supplementare per portare un proprio contributo... Sarà una modesta percentuale sui salari, sarà un lavoro supplementare che si farà per aiutare lo sviluppo economico della Nazione» (così il 18 febbraio 1950 alla Conferenza economica nazionale della Cgil) .
Ancora una volta modernizzazione e sviluppo come asse portante dell’interesse nazionale, ancora una volta identità nazionale che si rafforza in ragione della partecipazione del mondo di lavoro, di tutto il mondo del lavoro, alla realizzazione di quell’interesse. E non sarà l’ultima volta, anche se nei decenni successivi mai più l’Italia avrebbe trovato lo slancio di allora. Ma avremmo avuto momenti difficili, nei quali si sarebbe arrivati a concertare investimenti e salari in nome dell’interesse nazionale. Personalmente sarò sempre grato alle parti sociali per i difficili accordi della tremenda estate del 1992. I sindacati dei lavoratori fecero passare le dure misure di risanamento a cui fummo costretti senza una sola ora di sciopero generale, ma diluendo la protesta in manifestazioni regionali. Fu, da parte di tutti, un servizio all’Italia.
Così come servizio all’Italia è quello che rendono i grandi successi nel mondo dei frutti del nostro lavoro, successi che illustrano la Nazione e rendono noi orgogliosi della nostra identità italiana, si tratti della Ferrari, della moda o delle macchine utensili che esportiamo in tanti Paesi del mondo, dei nostri vini, occhiali o divani. Potrei dire per questo che ad illustrarci nel mondo non c’è solo la cultura e c’è anche l’industria. Ma sbaglierei se lo facessi, perché le due cose non sono affatto separate e perché la nostra industria è essa stessa figlia della nostra cultura, ne condivide la creatività e il gusto per la bellezza.
È questa, nel passato che la precede, nella sua stessa storia e nel suo presente, la Repubblica fondata sul lavoro. E il suo problema di oggi non è esserlo di meno, è, caso mai, esserlo di più. Esserlo di più fornendo più opportunità di lavoro specie ai suoi giovani qualificati per i quali la struttura molecolare della nostra industria offre pochissime mansioni di livello adeguato, fornendo a tutti opportunità di lavoro non soltanto precarie, giacché la precarietà del lavoro tutto fa fuorché consolidare la lealtà verso l’impresa e la condivisione delle sue prospettive future, stimolando infine maggiormente gli stessi imprenditori a sentirsi responsabili di tali prospettive future e non soltanto dei frutti che possono venire dal loro lavoro al benessere delle loro famiglie.
Siamo in un tempo nel quale si critica giustamente l’eccesso d’individualismo e di attenzione soltanto per se stessi, si critica la convinzione che perseguire i propri interessi realizzi sempre e in ogni caso l’interesse collettivo (una cosa che di sicuro non pensava neppure Adamo Smith), si critica l’assunzione dell’economia quale supremo regolatore delle attività umane.
Sono critiche forse eccessive, che dipingono in tinta unita una realtà fortunatamente molto più variegata. In più casi inoltre vanno ben oltre il bersaglio, in particolare quando arrivano a mettere in discussione l’economia di mercato in nome di non identificati non so che. E tuttavia, se esprimono, come di sicuro esprimono, aspirazioni alla responsabilità e all’impegno oggi frustrate, l’articolo 1, così com’è scritto e come Costantino Mortati ci ha insegnato a leggerlo, ha ancora una attualità straordinaria. È insomma uno di quei principi - come ha detto, il 25 aprile il nostro Presidente - «da non mettere in forse».
L’articolo è una sintesi del discorso tenuto ieri da Giuliano Amato al Quirinale
in occasione della cerimonia per
la Festa del Lavoro.