Alberto Arbasino, la Repubblica 3/5/2011, 3 maggio 2011
IL CARATTERE DELL’ITALIANO
Abbondano sui vari organi le secolari domande imbranate che i forestieri passanti e viandanti usano rivolgere a qualche conoscente italiano d´occasione: «Come mai siete da secoli calpesti e derisi? Perché non siete popolo? Perché siete divisi?». Domande tipicamente da rivolgere a qualunque bar sport, che proprio lì dà le sue risposte.
Anche però già alla Corte di Bisanzio, oltre che nei bar sport: «Romano!» era un grave insulto, perché vi si concentrava il peggio del peggio: ignominia, avarizia, lussuria, mendacio, più qualunque vizio. Ce ne informa l´aureo trattatello L´Italiano, di Giulio Bollati, or ora riapparso da Einaudi. E poco dopo fa intervenire Vincenzo Gioberti, per cui «v´ha un´Italia e una stirpe italiana congiunte di sangue, di religione, di lingua scritta ed illustre; ma divisa di governi, di leggi, d´istituti, di favella popolare, di costumi, di affetti, di consuetudini».
Tutto un bel «retaggio ideale» assembla così Guelfi e Ghibellini, Arlecchini bergamaschi e Pulcinella napoletani, Vico e Machiavelli, minatori e pizzaioli da export, cantanti e artisti e metalmeccanici ed ecclesiastici e navigatori e poeti... Giuseppe Baretti, Vincenzo Cuoco, Carlo Cattaneo, G. D. Romagnosi, il Manzoni della Morale cattolica e gli italiani visti dai romantici non come cittadini e soldati ma piuttosto papisti machiavellici, sventurati e avviliti dai servaggi, lettori di Tocqueville e sconfitti da Menelik...
Per il nobile politico milanese Francesco Melzi d´Eril, citato da Bollati, «le nostre truppe sono composte quasi interamente di disertori, di stranieri e di rifiuti della rivoluzione, dei quali non si può fidarsi. Volendo purgare l´armata italiana, bisognerebbe press´a poco distruggerla». E una volta partite le vecchie truppe? «Le nuove abbisognano più d´essere custodite che buone non siano a custodire». Insomma, «fare l´Italia senza gli italiani»: caratteristici e pittoreschi e simpatici ai viaggiatori e non già all´aristocrazia, come si sarà ripetuto in quelle taverne e bettole che anticipavano i bar sport all´epoca della Ninetta del Verzee.
Così nell´Italiano si discorre parecchio del patriottismo filofrancese di facoltosi e operosi milanesi quali i Greppi, Paolo ed altri parenti neoclassici. Ma ne rimane purtroppo fuori l´ultimo, il conte e ambasciatore Antonio Greppi, che già quasi centenario, al Grand Hôtel di Stresa, incanta il giovane Hemingway e altri ufficiali feriti con champagne-cocktails (in Addio alle armi). E più localmente rimasero celebri le sue battute. Dopo i funerali dell´amata consorte, fra gli amici che lo consolavano: «E inscì, anca incoeu, fra una robba e l´altra, emm fatt l´ura del risott». E al cameriere che lo interrompeva mentre si vestiva per uscire a pranzo: «Te mel dirè dimàn». «Ma l´è mort el so´ fradell!». «Te l´avevi ben ditt, de dimmell dimàn».
Un altro rimasto fuori è il cavalier Sommariva, gran nemico del Melzi d´Eril, benché l´avesse presentato lui a Napoleone. Era nato a S. Angelo Lodigiano, come i miei avi formaggiai e la Santa Cabrini. Già garzone di barbiere, aveva fatto a Milano una fortuna che diventò enorme con l´appalto delle tasse repubblicane. Quando fu allontanato dagli appalti, comprò la Villa Carlotta sul Lago di Como e divenne un grande mecenate. Soprattutto di scultura. Nelle rapide venute a Roma, visto il Thorwaldsen all´opera per gli appartamenti napoleonici al Quirinale, gli domandò una copia in marmo di quegli originali in stucco. E visitando con Canova in barca il suo studio inondato dal Tevere, una statua caduta era rotta. «Canova, mi fate uno sconto?». «Canova non fa sconti! Canova rifà più nuovo e più caro!». Tutto si trova ancora là a Tremezzo. Poi, ultimi anni e decenni a Parigi, fra continui acquisti di pitture neoclassiche importantissime. Qualcosa rimane a Brera. Il cavalier Sommariva fu raccontato soprattutto da Francis Haskell.
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Frattanto, secondo i nostri vari giornali, i soliti italiani continuano tradizionalmente da secoli a bacchettarsi e sferzarsi e staffilarsi (eccetera) reciprocamente, sibilando e latrando e uggiolando (e ancora eccetera), tutti insieme normalmente e usualmente come al solito.