Marco Magrini, Nòva24 28/4/2011, 28 aprile 2011
LA DISFIDA DEI BREVETTI
Nella sua avventura lunga quasi sessant’anni, la Silicon Valley – la valle a sud di San Francisco dove un tempo si coltivavano pesche e oggi le tecnologie – è diventata un paradiso per giovani ingegneri, inventori geniali e capitalisti di ventura. Ma, fatalmente, anche un paradiso per avvocati.
Oltre agli studi legali autoctoni (come il celebre Wilson Sonsini Goodrich Rosati), da tempo ne sono arrivati altri da New York e Washington. Dai tempi del celebre match Apple vs. Microsoft del 1988 – quando Steve Jobs attaccò Bill Gates perché Windows copiava l’interfaccia grafica del Mac – il grado della litigiosità tecnologica ha vissuto una specie di crescendo rossiniano. Nel 1994, la corte finì per assolvere Windows, spalancando la strada al suo dominio planetario sul Pc. Ma oggi che si gioca la nuova partita per il dominio del business mobile post-Pc – smartphone e tablet – la battaglia legale è più cruenta che mai. Non foss’altro perché i rivali non sono due. Ma una moltitudine.
La Apple di Jobs si trova nell’invidiabile posizione di azienda da battere e, quindi, nella spiacevole condizione di bersaglio delle cause da patent infringment, la presunta violazione di brevetti. A vent’anni dalla disfida con Microsoft, la settimana scorsa è tornata all’attacco. E non certo di un nemico qualsiasi: quella Samsung che compete frontalmentecon l’iPhone e l’iPad. Ma che è anche la sua prima fornitricedimemorie flash, schermi touch e perfino dei processori A4 e A5, progettati da Apple ma fabbricati da Samsung.
Android non se la passa meglio. Nell’ultimo anno e mezzo, il sistema operativo di Google (che secondo gli analisti è destinato a scavalcare l’iOs che fa funzionare i telefoni e i tablet Apple) ha collezionato 27 cause, per un totale di 37 dispute sui brevetti. E il bello è che, solo in minima parte, sono cause legali contro Google. La forza di Android sta nell’essere open-source: un gran numero di produttori di hardware lo usa e molti di questi sono stati attaccati dai detentori di brevetti. Inclusi alcuni patent troll.
I "demoni del brevetto", come vengonopocoaffettuosamente chiamati, sono quelli che invece di utilizzare la proprietà intellettuale per difendere un prodotto dalla concorrenza, la brandiscono come una clava, solo per farci soldi. La settimana scorsa, la Bedrock Computer Technologies – che non produce niente – ha vinto 5 milioni di dollari da Google in un pericoloso caso di patent infringment: una funzionalità di Linux usato nei server di Google avrebbe violato un brevetto di Bedrock. «Google non avrà problemi a sborsare 5 milioni – dice Florian Muller, un’esperta di proprietà intellettuale – ma questo caso avrà pesanti ripercussioni per l’industria dell’information technology e in particolare per Linux», che è un sistema operativo open-source. «Sulla base di questa sentenza, molti altri saranno chiamati a pagare». Buon per David Garrod, il proprietario di Bedrock che è un avvocato, specializzato in proprietà intellettuali.
Immaginate un portafoglio di 6mila brevetti, tutti relativi a wireless, processori, reti cellulari di quarta generazione, networking di dati, trasmissione ottica e quant’altro. È la (triste) eredità della canadeseNortel, una delle regine del boom di Borsa alla fine del secolo scorso, finita in amministrazione controllata. I suoi brevetti sono all’asta e Google ha appena messo sul piatto 900 milioni di dollari. In corsa ci sono anche la Rim (la casa del Blackberry, canadese pure lei) e, si mormora, la Apple. Ma il bello è che Google, per bocca del consigliere legale Kent Walker, ha dichiarato che l’operazione serve solo ad evitare che quel pacco di brevetti finisca in mano a qualche patent troll. «In assenza di una riforma – dice Walker – questa è la migliore soluzione per Google, per i suoi utenti e i suoi partner».
Che il sistema dei brevetti – nato per favorire la concorrenza, salvo poi intralciarla – vada riformato, lo dicono tutti. Lo ammette anche la Federal Trade Commission americana, che ha appena pubblicato un rapporto di 300 pagine («The evolving Ip marketplace»), elencando le disfunzioni del sistema. «Se fossi in Google – commenta Joe Brokmeier di Network World, una società di consulenza – invece di spendere 900 milioni in brevetti, li userei per fare lobbying in modo da cancellare per sempre i brevetti sul software», una piaga per il mondo della tecnologia americana. Sotto la Convenzione europea sui brevetti, il software non è genericamente brevettabile.
Ma c’è poco da fare: il primo campo di battaglia della disfida tecnologica planetaria resta, per ora, l’America e la sua Valle del Silicio. Terra di geni, di innovatori. E, ovviamente, di azzecagarbugli.