Giuseppe Videtti, la Repubblica 1/5/2011, 1 maggio 2011
ROBERTO VECCHIONI
Tutta colpa di Alberto Sordi. Roberto Vecchioni ne è convinto. «L´italiano medio non è come lo ha sempre rappresentato lui», protesta il cantautore che quest´anno, inaspettatamente, ha trionfato al Festival di Sanremo con una canzone dalla grande apertura melodica ma densa di metafore sulla «notte» che il nostro Paese sta attraversando. «Questa notte deve finire, non ce la meritiamo. E non è edificante che all´estero ci descrivano in questo modo. Siamo un popolo attento, generoso, colto. Abbiamo i nostri difetti, siamo un po´ caciaroni, egocentrici. Ma dalla Resistenza agli anni di piombo ci siamo tirati fuori da situazioni difficili con una forza e una coesione popolare fuori dal comune». Il professore, che compirà sessantasette anni il prossimo giugno ed è padre di quattro figli («nessuno per fortuna attratto dal mondo dello spettacolo»), arriva nella hall dell´albergo romano trascinandosi dietro il profumo del sigaro al quale non rinuncia. È ancora eccitato dalla vittoria sanremese, non tanto per la sorpresa di averla spuntata su una delle solite rime cuore-amore, quanto per aver riscoperto un modo di comunicare con le giovani generazioni come negli anni d´oro dei cantautori, quelli di Elisir e Samarcanda, quando la musica e l´impegno andavano di pari passo e l´Italia era un´altra Italia. «Basta con questo luogo comune dei giovani letargici, di una nuova generazione anestetizzata di fronte ai problemi nazionali», continua. «Lo dico per esperienza, da docente universitario. Oggi i ragazzi non hanno le opportunità che avevamo noi venti, trent´anni fa, sono spaventati dal futuro, i più deboli e meno abbienti perdono molto presto le speranze, quelli che come mia figlia (un architetto) guadagnano ottocento euro al mese fanno fatica a tirare avanti. I ragazzi, contrariamente a quanto si dice, sono eccezionali. C´è una cultura giovanile straordinaria, una grande voglia di riuscire, di andare avanti, di capire, di darsi forza. È un nuovo ´68, anche se meno arrabbiato».
È stato uno dei vincitori del Premio Tenco, nel 1983, ha scritto canzoni colte e ricche di citazioni, è un romanziere di successo e un docente scrupoloso che, dopo la laurea in lettere antiche conseguita nel ´68, non ha mai pensato di abbandonare l´insegnamento per aumentare le sue chance di successo. Eppure scoprì giovanissimo il potere della canzonetta. Come autore, sfornò successi a getto continuo nel cuore degli anni Sessanta, firmando con l´amico Andrea Lo Vecchio brani da hit parade (è loro la versione italiana di Barbara Ann dei Beach Boys, come numerose composizioni finite nei repertori di Ornella Vanoni, Iva Zanicchi, Gigliola Cinquetti, Nuovi Angeli e Homo Sapiens). «Che belli gli anni in cui facevo solo l´autore. Ero divertito, compiaciuto, interessato, mi piaceva moltissimo fare l´università e allo stesso tempo il canzonettaro», ricorda. «Ero sedotto dal piccolo miracolo della canzone che arrivava subito alla gente. Una capacità che poi ho perso per strada, quando ho cominciato a fare il cantautore impegnato. E ho sbagliato, bisognava farne tesoro, ricordare che alla gente piacciono le cose semplici. Negli anni Settanta per noi cantautori - Guccini, Lolli e tanti altri - la cosa fondamentale era scrivere, parlare, discutere; drammatizzare e sdrammatizzare, picchiare e ammazzare anche con le canzoni. Era un´epoca gloriosa, c´erano complicità, amicizia, amore, fantasia. Alla prima edizione del Premio Tenco, nel 1974, eravamo in quattro, Guccini, Branduardi, Venditti e io. Piccoli personaggi, tranne Guccini che era già famoso per Dio è morto. Non sono mica state tutte rose e fiori. Ho avuto i miei periodi di buio, negli anni Ottanta, quando nessuno aveva più voglia di ascoltarmi. Ma il successo è secondario quando fai solo ciò in cui credi. Né scrivere i libri è stata una compensazione, come qualcuno ha insinuato. Mi sono impegnato in narrativa perché mi piaceva. Senza mai rinnegare le mie canzoni. Ricantare Le rose blu, la mia preferita, nella trasmissione di Fabio Fazio è stata un´emozione incredibile».
Quaranta anni sono passati dall´album d´esordio, Parabola, che conteneva un classico, Luci a San Siro, il suo biglietto da visita, tiene ancora ottanta concerti sold out all´anno, ha una reputazione intellettuale immacolata, eppure la vittoria sanremese alla sua verde età gli ha dato altre motivazioni, aperto nuovi orizzonti. «È stata una soddisfazione grandissima, un´euforia meravigliosa. Chiamami ancora amore è una canzone che parla di come superare il buio, la notte, le inquietudini, le insicurezze, le incertezze. E non è solo una canzone politica, partitica, ma una canzone esistenziale, che vuole dire, non solo davanti alla nostra orribile classe politica ma anche davanti a Dio, questa notte deve finire. È la canzone perfetta. Mi è venuta fuori con urgenza lo scorso settembre in un albergo di Roma. Non avevo neanche un pezzo di carta e l´ho scritta su una tenda - non volevo usare carta igienica (la tenda poi l´ho smontata, fatta lavare e rispedita all´hotel)».
Il contatto con i giovani, prima come assistente di Storia delle religioni alla Cattolica, poi come insegnate di greco e latino ai licei, gli ha dato la certezza che oggi i gap generazionali non sono insormontabili come all´epoca in cui i suoi genitori, napoletani trapiantati al nord, si affannavano per dare un´istruzione a lui e a suo fratello Sergio. «Il senso della mia presenza a Sanremo e la partecipazione alle trasmissioni nazionalpopolari (domani sera sarà con Morandi su RaiDue in prima serata) è proprio questo», conferma. «Bisogna parlare anche a chi non conosce, a chi non sa che ci sono temi diversi che una canzone può trattare. Io ho esordito con la canzonetta, ma avevo dei valori precisi. La cultura, il sogno, l´onore, la passione. È stata la mia dimensione di esistere, di comunicare, più grande di qualsiasi altra attività, di romanziere, di insegnante. Sono partito in quarta, non ho mai avuto paura dell´impegno, pur sapendo di scrivere cose che non erano per tutti. Era la mia vita, la mia esistenza, il mio modo di essere, non l´avrei mai tradito. Come gli artisti che ho sempre guardato con riverenza, Bob Dylan e Leonard Cohen, che a settant´anni canta ancora in maniera meravigliosa. Mentre ero al suo concerto in Piazza San Marco, pensavo: "Questo deve fare una canzone: rapire la gente"».
Quella notte, in albergo, mentre scriveva parole su un pezzo di stoffa, capì che era arrivato, irrinunciabile, il momento di andare incontro alla gente, di spiegare cose difficili in modo facile, di recuperare il valore più autentico della canzone popolare, esprimere il senso del vivere comune. «Ed è successo il miracolo, perché in poche ore quella canzone ha raggruppato migliaia di persone in un pensiero e ha dato la possibilità a tanti di esprimere un concetto: voglio che il mondo cambi. Mi ha commosso, durante una trasmissione televisiva, vedere che una ragazza aveva scelto i miei versi per comunicare con i suoi amici della Tunisia. Un poeta - meglio un poetastro - come me non stabilisce il clima politico, butta solo lì delle idee in cui poi qualcuno si riconosce, ci trova un amore, una passione. Il potere della canzone io l´ho scoperto da ragazzino. È il modo più rapido e immediato per capire come va la vita, la società, la storia di un momento. Da sempre, nel mondo latino, nel Rinascimento, nel barocco. Alcuni sostengono che i cantautori fossero troppo impegnati. Non è così, era il momento che lo richiedeva. In questi ultimi trent´anni la canzone d´autore è stata fondamentale per far scoprire le magagne, le insicurezze, le paure, i drammi, i problemi dell´Italia. Però la canzone è anche una liberazione, un´espressione che fa respirare, che accomuna, una maniera di dire a tutti quel che senti dentro e che vuoi condividere. Oggi sono il cantautore di sempre, ma con la volontà di voler parlare anche a quelli che la pensano diversamente. Non per fargli cambiare credo politico, sarebbe una presunzione, ma almeno per fargli capire che c´è un altro modo di veder la vita. E qui mi preme sottolineare un punto debole della sinistra. Non ha compreso che i programmi popolari, quelli che loro disdegnano, sono importantissimi. Non si può sempre e soltanto parlare di religione solo in chiesa, cantare a quelli che ti conoscono già, che sanno benissimo chi sei. Devi andare anche davanti a quelli che hanno pensieri che consideri inferiori o mediocri. Questo è il limite più grande della loro comunicazione perché tradisce un principio fondamentale del vivere democratico».
Proprio lui che per i cantautori d´oltralpe nutriva una venerazione, oggi confessa: «Basta dire che i francesi sono più bravi di noi. Abbiamo Battiato, Guccini, Paolo Conte, talenti che potrebbero conquistare il mondo se solo non ci fosse la barriera linguistica. La bellezza della melodia italiana sta nella sua semplicità, prende i nostri sentimenti dall´origine - comuni alla sartina e alla cameriera, all´artigiano e all´avvocato - e li trasmette. Io l´ho studiata, la insegno all´università e ho scoperto che è un elemento fondamentale nel nostro modo di pensare e di vivere. Anche quando è un po´ retorica, va benissimo. I grandi compositori, da Modugno a Donaggio, l´avevano capito, andavano verso la gente senza mai perdere la coerenza compositiva. Anche la canzone d´autore, quando ha realizzato questa magia - vedi Azzurro di Paolo Conte - ha sempre avuto un successo travolgente. Perché è la gente che conta, non il pensiero complesso. Io l´ho fatto per tutta una carriera, canzoni complicate, incasinate, so benissimo a chi andavano. Ma ora sono in un momento in cui sento l´esigenza di scrivere cose che la gente comprenda. Per esorcizzare la mia paura. Il berlusconismo. La mentalità del trafiggere la realtà. Il cinismo, il fatto che ci sia gente che per giustificare le proprie malefatte è pronta a far credere che il mondo è tutto una merda e che gli uomini tutti dei malandrini».