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 2011  aprile 29 Venerdì calendario

AMICIZIA E POESIA SULLE RIVE DELL’ARNO

«Caro Amico, Clotilde Marghieri mi porta un suo messaggio. Esso è molto prezioso per me che adolescente già studiavo con estrema attenzione i suoi squisiti racconti. Ma la ricordo da prima ancora, quando i miei genitori mi portavano al Maggio, ai Concerti del Comunale. (Mio padre è Guido Guerrini, il compositore). So del duro periodo che sta vivendo e la prego di credere alla mia amicizia. Cristina Campo» . Con questa lettera, del 1 ° marzo 1963, comincia l’intensa amicizia epistolare tra Cristina Campo e Roberto Papi che si conserva in 37 pezzi manoscritti. Lunghe lettere, cartoline fittamente scritte, fotografie, fotocopie di saggi propri e d’altri, alcune minute di epistole e telegrammi di lui a lei; i testi vanno dal 1963 al 1973. Roberto Papi (1899-1976) fu figura eminente nella Firenze del dopoguerra e non solo. Sodale di Arturo Martini, Berenson, Montale, Cecchi, Ungaretti, Longhi, Michelucci, Luzi, capace di «intense ricognizioni e scandite parole» , come nota il nipote Leonardo Papi nel volume Una visita al signor Berenson (Franche Tirature, 2009), trasfuse nei suoi scritti le inquietudini di un esperto di uomini e d’arte. Cristina vive ormai a Roma, Papi è a Firenze e i nomi che ricorrono nelle lettere di lei (Gladys Coletti, Maria Chiappelli, Michelucci, i suoi genitori...) raccontano un tempo passato e intramontabile, quello della giovinezza fiorentina, della primavera della vita che lascia in eredità il «comando di fiorire» . Tutto è fiorentino in questa corrispondenza e si fonda sulla condivisione della sprezzatura, categoria dello spirito che la Campo seppe rinvenire nelle radici della sua Firenze e far rivivere: «Al signore della sprezzatura!» esordisce in una delle prime lettere a Papi; il 24 dicembre 1963 gli confessa: «Vorrei scrivere, soprattutto, un saggio sulla "sprezzatura"-questo tratto che fra tutti è il più nobile e che è dato così di rado, e a così pochi popoli. Gli Italiani ne ebbero il fiore proprio nei Medici, credo, fino alla morte di Lorenzo. Nei francesi questo tratto si rovescia in millanteria persino nel medioevo; negli inglesi si abbassa a sportsmanship militare: tutt’altra cosa, perché la sprezzatura è araldica, e soprattutto religiosa: vuol disprezzo dei beni terreni e pietà indifferente della bassezza altrui. Nei polacchi è un tratto costante, forse è la loro stessa natura (ricorda, per caso, la polacca in do minore — op. 40 n. 2 — di Chopin: quella specie di sorridente duello con la morte (o con la vita) pieno di alterezza e di ironia?) Inutile ricordare gli esempi soprannaturali: Cristo è il Modello della sprezzatura da un capo all’altro dei Vangeli» . Roberto le scrive di rimando: «Sprezzatura significa una gigantesca fiducia nella verità» . I due corrispondenti condividono un grande amore per Firenze: strade, angoli, paesaggi; per il Quattrocento culminante in Lorenzo, per i suoi antichi scrittori, in particolare per quel sonetto di Lapo Gianni «Amor, eo chero mia donna in domino /l’Arno balsamo fino /le mura di Firenze inargentate, /le rughe di cristallo lastricate…» che entrambi citano in rispettivi scritti. In una lettera del 20 aprile 1970 Cristina battezza Papi il «Prospero fiorentino» , lo shakespeariano Prospero evocato a significare mistero e sprezzatura in Parco dei cervi e in Les sources de la Vivonne. Cristina gli manda una foto della madre giovane, la chiama «la Principessa» e gliene parla con una tenerezza inconfondibile; lui le chiede notizie del maestro Guerrini morente. Il 26 giugno 1965, all’indomani della scomparsa del babbo, Cristina scrive: «Mio caro Roberto, non creda che io non sappia il prezzo della Sua lettera: di cui ogni parola è una perla raccolta, a rischio del respiro, su quei fondi marini dove non giunge il sole. Vede: rispondo subito; e non l’ho fatto per nessuno finora (...). La pace la trovo solo nella stanza dei miei, che è ora una piccola, dissimulata cappella. C’è una bellissima icona a sei sportelli con i ritratti dei miei Santi prediletti, quelli antichissimi che nessuno mai prega: Nicola, Atanasio, Basilio, Crisostomo, Antonio, Girolamo. E c’è una Vergine della Mercede, con tanti piccoli uomini sotto il mantello aperto. Soprattutto c’è il letto di mio Padre, nudo, come una croce senza crocifisso. Sta nel mezzo, come un altare; e lì vicino io mi siedo a leggere l’Ufficio dei Defunti, quel mare di splendori(...) Mio caro Roberto, un giorno la condurrò per mano in questo strano paese: che l’aspetta, come l’aspetto io, con certezza» . Il 22 giugno Papi le aveva scritto: «Sappia che in questo suo regno Lei mi ha fatto molto molto bene, consentendomi di partecipare a queste sue sofferenze, proprio affratellandomi a esse come se anche io fossi di casa, ospitandomi, carissima, come ne fossi degno» . Lei gli invia il manoscritto della poesia La tigre assenza, datato «luglio 1966» , stesura anteriore a quella finora nota. E lui risponde: «La poesia ai genitori. È il Suo ritratto» . Nel novembre 1966 c’è il dramma dell’alluvione, che Cristina segue da Roma: l’angoscia, la ricerca di notizie, la speranza di rinascita in due lettere che sono un unicum del suo epistolario e contengono un’immagine che è un’icona della sua scrittura: l’altare acceso di doppieri nel Battistero di Firenze da cui le acque nere si sono ritirate, la «meraviglia bizantina» descritta al telefono dall’amica Gladys sopravvissuta, che sembra un annuncio, dieci anni prima che si materializzi, dello spirito di Diario bizantino e altre poesie, ultimi versi di Cristina pubblicati postumi. Tra le immagini inviate a Papi troviamo la oggi famosa fotografia di Cristina in mezzo ad altri fedeli, qui chiosata con ironia; poi le foto scattate da Cristina su ciò che lei vede dalle sue «finestre sghembe» di piazza Sant’Anselmo, e due icone: la Nicopeia, della Basilica di San Marco, su cui scrive: «A Roberto, la mia piccola, divina Nicopeia— operatrice di Vittoria» e quella del Bambino Gesù-Emmanuele, che reca scritta sotto a mano: «È nato— capisce?» . Tesori nuovi, conferme, sorprese, una inedita declinazione di amicizia che illumina i due di una luce fiorentinamente severa e generosa, fin nelle pieghe del «male di vivere» sperimentato da entrambi in lunghi dolori e in squarci di carità reciproca. Le lettere a Roberto, come la scrittura tutta di Cristina, dimostrano ancora una volta il senso e la pratica di quell’assoluto che fin da giovane imparò a riconoscere e a cercare nella poesia, nell’arte, nella musica, nelle sue città, nei suoi amati, nei suoi amici: non esiste l’assoluto della relazione ma l’assoluto — l’umanità, la bellezza, il dolore, Dio— è sempre una relazione.
Maria Pertile