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 2011  aprile 29 Venerdì calendario

I SALUMI DEL RE, IL BRODO DI EINAUDI. IL QUIRINALE VISTO DALLA TAVOLA —

Fa un certo effetto, al tempo dell’iPad che ha contaminato ogni angolo della vita sociale, fino a trovar posto sulle tavole dei ristoranti in forma di menù tecnologico, sfogliare un volume che sembra cristallizzare, nonostante il cammino dei tempi, riti, abitudini, liste delle vivande, impresse su carta e impreziosite con decorazioni artistiche. Ma qui siamo nel più importante dei Palazzi, il Quirinale. E qui si descrivono i menù dei pranzi ufficiali riguardanti i 15 capi di Stato, che vi hanno dimorato, nell’arco di 150 anni. Un altro pianeta, si direbbe. In verità, non è (non è stato) tutto così immutabile. Anzi. L’elemento più concreto dello stile gastronomico quirinalizio, il cibo, si è notevolmente evoluto, nell’arco di un secolo e mezzo.
«La cucina ha contribuito all’unificazione d’Italia e viceversa» , notava Giovanni Ballarini, presidente dell’Accademia Italiana della Cucina, presentando, ieri al Circolo della Stampa di Milano, «I menu del Quirinale» . Il volume, curato da Maurizio Campiverdi e Francesco Ricciardi, è stato promosso dall’Istituzione culturale fondata nel 1953 da Orio Vergani, anche con il sostegno della Fondazione Corriere della Sera.
E’ lo stesso Giorgio Napolitano, con il suo messaggio d’apertura, a indicare il significato dell’opera: «Veri e propri documenti di valore storico e culturale, questi menu raccontano della progressiva evoluzione dei punti di riferimento dell’alta cucina nell’Italia post-unitaria» . In concreto, si tratta di un’ampia testimonianza su usi e costumi dei capi di Stato attraverso 250 menu inediti. Scopriamo così dove e con chi hanno mangiato re e presidenti. Sia al Quirinale, sia nei Palazzi degli altri Paesi durante le visite. All’epoca di Casa Savoia regnante, i pranzi — ricchi, ipercalorici e sfarzosi (nel corso dell’anno si raggiungevano ben 500 diverse preparazioni culinarie) — erano di impronta franco-piemontese. Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, poco mondano e neppure una buona forchetta, talvolta metteva in imbarazzo i commensali. Inoltre, preferiva i cibi rustici (polenta, formaggi locali, salumi delle Langhe) e beveva volentieri Barolo e Barbaresco, mentre trionfavano i grandi Chateaux e Champagne.
Anche Umberto I non era un fan dell’alta cucina. In compenso, la moglie Margherita fece brillare di celebrità, in Europa, la tavola dei Savoia. Uno dei menu memorabili celebra il primo convegno di Araldica di Roma (1883): 16 portate, 9 vini (uno solo italiano, il Marsala Ingham), descritti al centro del foglio decorato da 23 stemmi.
Dal regno alla Repubblica, con i suoi 11 presidenti. I menù «dimagriscono» progressivamente: massimo 6 portate, non più di 3 vini. Italiani, finalmente. Lo Spumante a fine pasto viene sostituito dal Passito o dal Moscato. Essenziali i menu dei pranzi di Stato (e non) del Dopoguerra, quando l’Italia stava uscendo dalla fame. Un episodio, citato da Indro Montanelli, invitato al Quirinale dal presidente Einaudi, rende bene il concetto di sobrietà. «Il pranzo consistette in prosciutto e melone, consommé, branzino lesso e frutta— raccontò il giornalista —. Alla frutta, Einaudi prese dalla fruttiera una mela, e mi chiese "Ne vuole mezza?". Ma l’opulenza culinaria non va di pari passo con la migliore situazione economica. Anzi. Dagli anni ’ 70, si punta sulla leggerezza. Tra i più leggeri, si ricordano i cibi offerti da Sandro Pertini. Brodo, pesce e carni bianche. Ma l’ultraottantenne presidente talvolta rompeva le righe, ordinando piatti «proibiti» , come il babà allo zabaione. E Giorgio Napolitano, infine, seguendo le linee della gastronomia di oggi, appare molto attento alla qualità delle materie prime e al rapporto tra gusto e salute.
Marisa Fumagall