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 2011  aprile 28 Giovedì calendario

UN GHIGNO E TOTÒ DISSE: NON BUTTATE QUEL TRITOLO CI POTRÀ SERVIRE ANCORA" - NAPOLI

Don Pippo Calò era preoccupato. Temeva, il capomandamento della famiglia mafiosa di Porta Nuova, che l´esplosivo custodito da Cosa nostra nell´arsenale di contrada Giambascio a San Giuseppe Jato potesse essere messo a confronto con quello scoperto nella sua disponibilità durante le indagini sulla strage del rapido 904. Per questo chiese l´intervento di Giovanni Brusca, l´uomo che qualche anno dopo avrebbe azionato il telecomando mentre l´auto di Giovanni Falcone attraversava l´autostrada di Capaci. «Durante il maxi processo - ha raccontato Brusca ai magistrati napoletani - Calò e Rotolo (un altro mafioso, ndr) mi dissero di chiedere a Riina di levare di mezzo tutto il materiale».
Il sorrisetto di Riina
Brusca riferì al capo dei capi della richiesta di Calò. «Ma Riina, con un sorrisetto, mi fece capire che era già al corrente della situazione e mi disse di riferire a Calò di stare tranquillo e che non vi era motivo di distruggere il materiale». Eppure proprio seguendo la pista di quell´esplosivo i pm di Napoli Sergio Amato e Paolo Itri, 27 anni dopo quella strage sono arrivati ad accusare Riina come mandante della dell´attentato del 23 dicembre 1984.
La risposta ai magistrati
Interrogato l´8 giugno 2010, Brusca ha raccontato: «Quanto alla strage del rapido 904, fin da subito a noi di Cosa nostra fu ben chiaro che si trattava della risposta dell´organizzazione ai mandati di cattura di Falcone e Borsellino del settembre 1984». Ha spiegato, il pentito, che la strategia dei Corleonesi si sviluppava «su più piani». Quello «giudiziario, il sistematico aggiustamento dei processi». Quello «puramente militare, ovvero il disegno di eliminazione fisica di tutti coloro, magistrati e forze dell´ordine, impegnati nella lotta alla mafia». E quello di «inquinamento probatorio, nel senso che Riina ha sempre cercato di coinvolgere in qualche maniera "entità estranee", tipo servizi segreti o apparati dello Stato, allo scopo di sviare strumentalmente l´attenzione dalla identificazione dei mandanti delle stragi».
Un fatto politico
Elementi che, uniti alle dichiarazioni di altri pentiti di mafia, spingono la procura napoletana a ritenere che Riina volesse far passare la strage di Natale «come un fatto politico», così da depistare le indagini. Attraverso le stragi, afferma il procuratore aggiunto Alessandro Pennasilico, il capo di Cosa nostra voleva esercitare pressioni anche sui suoi «veri o presunti, referenti politici, come sostanziale forma di ricatto per indurli a condizionare l´andamento del maxi processo». Delle stragi come «preciso messaggio ai referenti politici» hanno parlato ad esempio i pentiti Gioacchino La Barbera e Leonardo Messina,
Il ruolo dei napoletani
Almeno una parte dell´esplosivo, argomenta la procura, fu trasportato presso la stazione Centrale di Napoli e collocato sul rapido 904 da affiliati a un gruppo camorristico napoletano. Pista già scandagliata dai primi processi conclusi con l´assoluzione definitiva dall´accusa di strage dell´ex capoclan del Rione Sanità Giuseppe Missi e di altri due presunti affiliati alla sua cosca, oltre che dell´ex deputato del Msi Massimo Abbatangelo, condannati solo per l´esplosivo. Le successive dichiarazioni di pentiti di camorra come i fratelli Luigi, Salvatore e Guglielmo Giuliano, che hanno confermato, pur con sfumature diverse, quella che la procura definisce come «la piena partecipazione del gruppo Missi all´attentato», non potranno pertanto essere utilizzate. Nel 2007 ha cominciato a collaborare con la giustizia anche Giuseppe Missi. Ma pure in questa veste l´ex padrino, che non ha ancora ottenuto lo status di pentito, ha sempre respinto con energia qualsiasi accostamento alla strage di Natale proclamandosi vittima di un complotto «di camorra e servizi deviati».