Alberto Arbasino, Corriere della Sera 28/04/2011, 28 aprile 2011
SENZA VOCI LA PATRIA DELLA LIRICA
Fra gli automi semoventi rievocati nel volume Il Turco, ho fatto in tempo a incontrarne a Roma almeno tre. Due da Mario Praz che li teneva sotto un divano orientale in via Giulia, e non appena tirati fuori suonavano e ballavano in onore di Edmund Wilson. Un altro sedeva, naturalmente alla turchesca, nel salotto di Kiki Brandolini in piazza di Spagna; e opportunamente sollecitato fumava il narghilè, traendone magnifici sbuffi di fumo.
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Nell’immediato dopoguerra, al Carlo Felice genovese ancora sfasciato, Franco Zeffirelli presentò una Carmen con sigaraie abbigliate da Pier Luigi Pizzi tipo «noi siam come le lucciole, noi del Venticinque siamo le donne…» . Umberto Tirelli e Danilo Donati, in vesti di megere, spazzavano qua e là per fa muovere le coriste immobili.
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La protagonista Giulietta Simionato si accorse a un tratto che qualcuno rideva, mentre lei eseguiva l’assai impegnativa Seguidilla con pacche sul sedere e nacchere su un tavolone della taverna. Sbirciò dietro, e fulminò una delle megere che la stava imitando su un tavolino piccolissimo.
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Guardando Palazzo Grazioli, a Roma, si va indietro di qualche generazione. Molti anni fa, un’austera duchessa Grazioli passava pomeriggi di gioco a carte con altre dame romane, nel palazzo caprese di un marchese Patrizi, locale, che produceva vini squisiti.
Il suo consorte, Pupetto Caravita di Sirignano fu invece per decenni un popolarissimo corteggiatore di belle americane sull’isola, incoraggiato e applaudito dagli «antichi gentiluomini dei circoli nautici» , suoi amici.
La specialità di Pupetto era che mostrava le albe, ripetendo «avete visto che bella giornata vi abbiamo preparato!» . E quel mito della Bella Giornata ritorna anche nella narrativa di Raffaele Le Capria, che vive con la consorte Ilaria in piazza Grazioli 5, subito lì dietro.
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Centenario di Carlo Bo! Ci siamo conosciuti e frequentati per mezzo secolo, mai ovviamente d’accordo su niente— anni di «posizioni» ben precise— ma polemizzando su temi alti con un tono altissimo che naturalmente incantava ambedue.
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Rettore prestigiosissimo dell’Università di Urbino, lo si incontrava spesso sui treni del weekend, carico di salumi e formaggi squisiti per il ménage di Milano, in via privata e tranquilla Maria Teresa. Ma una domenica mattina, all’ora dell’aperitivo nella peraltro famosa pasticceria Marchesi presso corso Magenta, finse un rabbuffo: «Cosa fai tu qui?» . Risposi che ero ormai «di zona» . Replicò: «Allora puoi. Ma non dirlo a quelli di Roma, perché sennò diventa di moda e non possiamo più venirci» .
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Era naturalmente un assiduo della libreria notturna sotto i portici dell’Odeon, bofonchiando: «Vediamo le novità della corriera di Francia» . E a Montecitorio, nelle sedute comuni fra Camera e Senato, cui appartenevamo, intimava: «Vieni qui a parlare».
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Per il suo addio a Urbino, mi fece chiedere se intendevo partecipare a un simposio di saluto nel teatro locale. Appena risposi certamente sì, mi fu comunicato che sarei stato l’unico oratore. Che panico.
Venni soccorso dalla bibliofilia. Negli anni Quaranta, scolaretto, avevo acquistato volumi e volumetti anche di editori effimeri. Tutti ovviamente in seguito scomparsi. E col mio sacchetto di quei libri, dal palco del teatro, incominciò una gara di minuziosità e meticolosità con Bo in prima fila. Anche rammentando vecchi scomparsi amici, ai margini delle accuratezze bibliografiche. Bo era beato.
Non molto dopo, mutate le aure, la stessa Università di Urbino conferì una laurea ad honorem al motociclista Valentino Rossi.
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Valerio Adami rammenta che fra le serate a Manhattan si andò con Norman Mailer al debutto in un teatrino molto «off» di una sua giovane moglie bella e brava attrice. Mailer, soavissimo, ci invitò poi a casa, oltre Brooklyn. Erano paraggi pericolosi, allora, per un ritorno in taxi nel cuore della notte. E così Mailer non figura tra gli scrittori americani nelle mie recenti opere.
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Fino a poco fa, erano moltissimi i grandi nomi leggendari e mitici ingaggiati nella routine lirica italiana. Non solo Callas. Tebaldi, Olivero, Scotto, Sciutti, Zeani, Petrella… E Stignani, Pederzini, Simoniato, Cossotto… Con Del Monaco, Di Stefano, Corelli, Bergonzi, Penno... E Gobbi, Guelfi, Bechi, Bastianini, Tajo, Petri, Siepi, Rossi Lemeni… Generalmente diretti da De Sabata, Sanzogno, Gavazzeni, Votto, Molinari Pradelli, in spettacoli di Visconti, Strehler, Squarzina, Costa, Zeffirelli, allestiti da Fini, Sironi, Ratto, Damiani, Tosi, De Nobili… Rientravano illustri anziani come Boccaloni e Stabile per interpretare Il ratto dal Serraglio e Il Turco in Italia con la Callas… Fino alla generazione Freni-Pavarotti, e non solo in Italia ma al Metropolitan, al Colón…
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Sarà ora colpa dei nostri conservatori e insegnanti di canto, se voci simili non si sentono più? Sarà poi il caso di paragonare quei cast favolosi così normali fino a ieri, coi vari cartelloni attuali pieni di stranieri che cantano un italiano barbaro in abiti da mercatino, e probabilmente pagano le tasse all’estero, alla faccia di ogni Fus nostrano?
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Zurigo pare più semplice: i depositi bancari vengono autorizzati purché si dimostri di aver lavorato (cioè cantato) per qualche volta in territorio svizzero. Ecco perché l’opera locale può permettersi i cantanti più importanti a prezzi ridotti, si dice.
Alberto Arbasino