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 2011  aprile 28 Giovedì calendario

L’APPELLO DEI CAPI TRIBU’: «PAESE UNITO E SENZA RAIS» — È

tempo di riesumare i vecchi rancori. «Gheddafi non è più un fratello» ha fatto sapere per primo il leader dei Warfallah. E non c’è stato bisogno di altro: la chiamata alle armi ha funzionato. Ieri i capi di 61 tribù libiche hanno annunciato al mondo di non voler rimanere al fianco del Colonnello, ammesso che lo siano mai stati fino in fondo. Perché lui ha sempre taciuto il loro impegno e il loro sacrificio nella lotta al colonialismo. Mai una parola di riconoscimento per quel che fecero nel 1911 quando fronteggiarono gli italiani nella guerra di Libia. E adesso è arrivato il momento per pareggiare i conti. «Di fronte alle minacce che gravano sull’unità del Paese e di fronte alle manovre e alla propaganda del dittatore —, dicono i capi tribù —, noi dichiariamo solennemente: nulla ci dividerà» . A diffondere le loro parole è lo scrittore francese Bernard Henri Lévy che ha pubblicato sul sito della sua rivista «La regle du Jeu» l’appello dei 61 rivoltosi (firmato) affinché Muammar Gheddafi lasci il potere. «Condividiamo gli ideali di una Libia libera, democratica e unita» scrivono i rappresentanti tribali. «Una volta che il dittatore se ne sarà andato saremo finalmente liberi di costruire una società che risponda ai nostri desideri» . Tra le adesioni più significative, sottolinea Lévy, c’è quella di Khalifa Saleh Al Kadhafi, uno dei capoclan della tribù del raìs. E se caso mai non fosse chiaro, l’appello non è un richiamo al senso di responsabilità di Gheddafi. È l’alleanza, fisica, con i rivoluzionari, sono migliaia di uomini che promettono aiuto ai ribelli, sul fronte. Armi in pugno e combattimenti «contro l’oppressione e il genio malvagio della divisione» . Temute come niente altro, corteggiate dai servizi segreti che sono arrivati a offrire montagne di soldi per comprare la loro fedeltà, le tribù sono il fronte più rischioso per il colonnello, capaci come sono di sospendere le loro lacerazioni interne in un solo giorno pur di mettere a segno l’obiettivo del momento: in questo caso far cadere il dittatore. E a proposito di divisioni interne è lo stesso Bernard Henri Lévy a precisare che fra le 61 rivoltose ce ne sono alcune che al momento «sono divise» sull’appoggio ai ribelli. Va detto poi che la Libia è fra i Paesi arabi più frammentati fra clan e tribù: ne conta 140. Le notizie rimbalzate fino a Bengasi dicevano ieri che i berberi sono arrivati a centinaia dalle montagne al confine con la Tunisia per unirsi alle forze anti-Gheddafi. Fra i Magariha— il clan che ha addestrato molti uomini della sicurezza del raìs — i giovani sono quasi tutti con i rivoluzionari. La tribù Zentan, a sud di Misurata, combatte da settimane contro le truppe lealiste. In rivolta anche quelle del Jebel, la montagna a sud di Tripoli, come i Rojaban, i Riaina. Gli Zuwaiya del deserto orientale, potenti perché controllano il gasdotto, hanno minacciato più volte di bloccare le esportazioni di greggio. Perfino nella zona del Sirte, dove Gheddafi è nato, è contro di lui la tribù di Al Farjane, come lo è quella a sud-est del Paese, dei Tebu. E poi ci sono i Tuareg che, ripetono le tv arabe, sono con la rivoluzione: cosa non secondaria visto che in Libia sono mezzo milione. Se la Cirenaica e i capi tribali voltano le spalle al colonnello, interviene in suo aiuto il presidente del Ciad, Idriss Déby, che pare abbia ordinato ieri a seimila soldati del suo esercito di partire per la Libia per aiutare le truppe del dittatore. Il Consiglio nazionale di Bengasi invece invoca l’invio di nuove armi e ringrazia: Francia, Italia e Gran Bretagna per gli istruttori militari che arriveranno nei prossimi giorni e Stati Uniti per i 25 milioni di dollari stanziati per comprare generi di prima necessità ma non armi. Medicine, di sicuro, e poi cibo, acqua, coperte, benzina: tutto quel che manca a Misurata, ancora sotto attacco, specie al porto. Dove le navi, cariche di aiuti umanitari, restano al largo. Come la speranza di tornare alla pace.
Giusi Fasano