MARCO ALFIERI, La Stampa 27/4/2011, 27 aprile 2011
Le aziende: “Bombardare è stato un pessimo affare” - Bombardare? «Una scelta suicida per le imprese italiane
Le aziende: “Bombardare è stato un pessimo affare” - Bombardare? «Una scelta suicida per le imprese italiane. Ne soffriremo per anni, ben sapendo che non potremo più mettere piede in Libia perché ci sarà una metà della popolazione che ci odierà. Così come i governi di tutti gli altri Stati africani…». Alfredo Cestari, presidente della Camera di commercio ItalAfrica Centrale, l’altra sera ha evocato l’effetto domino, la ritorsione economica dalla Libia al resto del Maghreb, la Cina del made in Italy. Secondo l’ultimo bollettino Aice, nei settori forti metalmeccanico ed elettronico l’export italiano 2011 verso il Nord Africa potrebbe crollare del 50-70%, per un controvalore di 8 miliardi di euro. Chiaro che una guerra italiana a Tripoli peggiorerebbe la stima. Corporate Italia ha sempre tifato per la continuità del regime. Lo impone la forza dell’interscambio, pari a 11 miliardi di euro. Tripoli si colloca al primo e al terzo posto tra i nostri fornitori di petrolio e gas naturale: gli idrocarburi rappresentano il 99% delle importazioni italiane mentre Roma esporta soprattutto prodotti petroliferi raffinati, prodotti per l’edilizia e macchinari. Tutto questo fino a un paio di mesi fa. Poi c’è stata la rivolta contro Gheddafi, il lungo equilibrismo berlusconiano e l’escalation delle ultime ore: dalla concessione delle basi ai bombardamenti. Aggravando la prospettiva di un ritorno al business per le circa cento imprese italiane presenti nel Paese di Gheddafi e oggi costrette a tenere in stand by commesse e progetti. Eni, ad esempio, è pronta a riavviare la produzione non appena la situazione si sarà normalizzata, «ma dopo i bombardamenti varrà ancora la special relationship del passato?» si domanda un consulente McKinsey esperto di cose africane. Lo stesso vale per altri big come Finmeccanica, che ha commesse ferme per un miliardo di euro e Impregilo, che stava costruendo l’università di Misurata. Anche l’autostrada dell’amicizia, la cui realizzazione è riservata alle nostre aziende (1700 chilometri dall’Egitto alla Tunisia per 3 miliardi di investimento), è al palo, dopo che Saipem si era aggiudicata il primo lotto di appalti. «Badate: sono tutti business legati ad accordi politici», continua l’uomo McKinsey. «Se salta la famiglia Gheddafi le nostre imprese perderanno il principale procacciatore d’affari; se resta in piedi è anche peggio perché partiranno le ritorsioni…». Poi c’è l’annoso tema delle Pmi. Con l’accordo BerlusconiGheddafi le aziende italiane avrebbero dovuto rafforzarsi nei settori «non oil». Invece non se ne farà nulla. La zona franca per gli investimenti con la guerra è andata in fumo. Insieme al grande progetto turistico per valorizzare la costa. Donatella Picarelli è la responsabile marketing di Frabo Spa, un’azienda termoidraulica da 75 addetti con base a Quinzano d’Oglio (Brescia). «Avevamo già dato adesione per la fiera delle costruzioni a maggio a Tripoli», racconta. «Ci stavamo per affacciare sul mercato libico, ma ora è saltato tutto. Siamo preoccupati, perché quell’area era molto promettente e più facile da raggiungere del Far East...». E ancora. Giovanni Certi Massimini, con la sua Italfarm, prima della guerra stava costruendo impianti agro-industriali per la trasformazione di prodotti agricoli, pomodoro e farina, vicino a Tripoli. «Abbiamo dovuto sospendere in fretta e furia e non riusciamo a sbloccare i crediti incagliati», si lamenta. Altre imprese non possono spedire i loro container già stivati, dunque non incassano perché non scatta la lettera di credito. «Altre ancora hanno lavori da completare, ma adesso temono la ritorsione», continua l’imprenditore di Reggio Emilia. Anche Franco Germanetti è preoccupato ma non crede nell’effetto domino nordafricano. L’azienda di trasporti di Bra spedisce merci in tutto il Maghreb. «Il business in Libia si è interrotto bruscamente», ammette. «Ma nel resto della regione il primo trimestre 2011 ha segnato gli stessi ricavi del 2010. E poi, sinceramente, voglio credere a questa primavera africana…».