MICHELE BRAMBILLA, La Stampa 28/4/2011, 28 aprile 2011
Ad Alba le lacrime della folla - La macchina del tempo s’è azionata ieri mattina ad Alba facendoci tornare ad anni lontani, anni non necessariamente migliori di quelli presenti (almeno non in tutto) ma comunque tanto diversi sia nelle cose visibili, sia in quelle invisibili
Ad Alba le lacrime della folla - La macchina del tempo s’è azionata ieri mattina ad Alba facendoci tornare ad anni lontani, anni non necessariamente migliori di quelli presenti (almeno non in tutto) ma comunque tanto diversi sia nelle cose visibili, sia in quelle invisibili. Visibili erano nella piazza del Duomo - e poi nelle vie e nelle piazzette tutt’intorno - i volti fieri, composti di una folla che era poi quasi tutto il paese. Visibili le lacrime, l’ordine, il non sgomitare, certi vestiti della festa. Mentre invisibili erano la dignità, il dolore, il silenzio, il senso della perdita di qualcuno che era molto più che un datore di lavoro. Invisibili ma non meno reali e percepibili: non s’è forse detto che l’essenziale è invisibile agli occhi? I funerali di Pietro Ferrero hanno ricordato i funerali del Grande Torino, o quelli di Fausto Coppi, con quell’Italia dei nostri padri e dei nostri nonni che ogni tanto rivediamo in bianco e nero, quell’Italia di operai in giacca e cravatta perché allora si era povera gente ma si rispettavano i morti. Quanto diversi quei funerali d’allora, e quello di ieri, dai tanti funerali-spettacolo cui siamo ahimè da tempo abituati, con le passerelle dei vip, il chiacchiericcio, gli applausi. Anche ieri s’è applaudito - due volte, non di più - ma erano applausi neppure lontani parenti di quelli di certi funerali trasformati, anche per colpa di noi dei media, in carnevalate. Non è facile spiegare perché quelli di ieri erano applausi diversi. Anzi è impossibile come è sempre impossibile spiegare a parole tutto ciò che appartiene al cuore. Ma chi c’era non ha dubbi: non s’è trattato né dell’applauso nevrotico di chi si illude di esorcizzare la morte, né di quello di chi batte le mani come se fosse in uno studio tv. Il primo applauso è stato poco dopo le undici, quando è arrivata la bara seguita da tutti i familiari: il padre Michele e la madre Maria Franca, la moglie Luisa, il fratello Giovanni con Paola. Per sette minuti - sette! - tutta Alba ha applaudito, e in quei sette minuti mi sono chissà perché ricordato di una vecchia lezione all’università, quando un professore di psicologia spiegò che il gesto dell’applauso è la simulazione di un abbraccio. Si vorrebbe abbracciare qualcuno ma non si può perché si è distanti, e allora le mani si ricongiungono non per stringere, ma per emettere un suono che sia un segno. Di certo Michele - il patriarca, il fondatore - ha percepito quel battere le mani come un abbraccio e ha ringraziato portandosi la mano destra alle labbra e mandando un bacio che era non per una massa indistinta ma per tutti gli albesi, uno per uno. E dopo il bacio è stato commovente vedere il vecchio Michele allargare due volte le braccia come per dire «avete visto che cosa è successo? È successo e io non ci posso fare niente». Il grande industriale, il genio che si riconosce povero e impotente di fronte alla morte. Poi s’è applaudito quando ha parlato, alla fine della messa, il fratello Giovanni. Anche lui s’è presentato spogliato d’ogni potere di fronte al mistero: «Sembravi troppo forte per morire, troppo proiettato in avanti per non avere un domani», ha detto al fratello Pietro. Già, sembrava impossibile che accadesse - quando si è giovani è strano, cantava Guccini - ma è successo, perché nessuno è padrone del proprio destino. Non abbiamo scelto di venire al mondo e tanto meno ce ne vorremmo andare. Ieri in piazza questo senso di precarietà e insieme questo desiderio di infinito, pareva di toccarli con mano. Solo in un attimo la voce di Giovanni s’è incrinata. È stato quando ha pensato alla mamma e al papà. Ha detto infatti che una moglie che perde un marito diventa una vedova e un figlio che perde un genitore diventa un orfano: ma non c’è parola che definisca un padre e una madre che perdono un figlio perché quello è il dolore più grande, un dolore tanto contro natura che non si può nemmeno dargli un nome. Erano in molti, ieri in piazza, a piangere. È infantile pensare che ieri Alba non fosse soltanto al funerale di un «padrone»? È banale dire che non siamo abituati a vedere un simile rapporto tra un industriale e i suoi dipendenti? Forse sì, è banale, ma a chiunque era lì ieri mattina è parso soprattutto vero. Ed è per questo che sembrava un funerale d’antan, con le autorità fatte entrare dal retro perché non rubassero la scena, con diecimila persone rimaste in piedi e in silenzio per tre ore, con quelle preghiere recitate in piazza ad alta voce da tutti, ma proprio tutti, anche da coloro che a messa non ci vanno mai ma per una volta hanno fatto pace con Dio. C’erano ieri un senso del sacro e un senso del lutto. Un lutto serio, che vuol dire negozi chiusi davvero, non saracinesche abbassate per un minuto simbolico com’è diventato uso comune. Ieri ad Alba non c’era vetrina di negozio senza la fotografia di Pietro con la scritta «Sempre con noi». I Ferrero sono tra le famiglie più ricche d’Italia e la loro azienda è una delle più moderne del Paese; il loro successo da un pezzo ha oltrepassato i confini. Ma ieri la macchina del tempo ci ha mostrato che si può essere ricchi, moderni e di successo anche conservando un’anima.