Tommy Cappellini, il Giornale 27/4/2011, 27 aprile 2011
Nella «Chiesa rossa» la peggiore eresia è quella del dubbio - Senza voler portar fuori la mummia del comunismo dal Museo della Storia delle Idee (con buona pace di coloro che tentano di rianimarla ogni giorno con filosofica respirazione bocca a bocca, ad esempio Badiou e Zizek, per i quali «alla fine del capitalismo ci sarebbe il comunismo ») e senza voler armare la mente degli epigoni dell’anticomunismo con nozioni in fondo inutili (visto che il nemico è sottoterra), possiamo ben dire che L’altronovecento
Nella «Chiesa rossa» la peggiore eresia è quella del dubbio - Senza voler portar fuori la mummia del comunismo dal Museo della Storia delle Idee (con buona pace di coloro che tentano di rianimarla ogni giorno con filosofica respirazione bocca a bocca, ad esempio Badiou e Zizek, per i quali «alla fine del capitalismo ci sarebbe il comunismo ») e senza voler armare la mente degli epigoni dell’anticomunismo con nozioni in fondo inutili (visto che il nemico è sottoterra), possiamo ben dire che L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico. Volume II (a cura di Pier Paolo Poggio, Jaca Book, pagg. 800, euro 40) è una lettura appassionante per gli studiosi del «secolo breve», tragedie comprese. Questa seconda raccolta di saggi (su cinque previste) inizia dove si era fermata la prima, dal 1945, e si spinge al 1989, fino a comprendere pensatori ancora oggi molto utili, come Castoriadis (di cui raccomandiamo Finestra sul caos , Eleuthera), Debord, Foucault, Deleuze, Ellul (che Jaca Book sta ripubblicando) e il malinconico Ivan Illich (ma perché nessuno ristampa Genere e sesso ?). Intento e cornice dell’operazione, per riprendere le parole di Poggio, è considerare gli effetti culturali di quella guerra che «vide schierarsi sullo stesso fronte la democrazia capitalistica occidentale e l’URSS di Stalin contro gli Stati fascisti a guida nazista. Rispetto agli schemi, il treno della storia compì uno scarto. Nelle conseguenze di questo «scarto» prosperarono e patirono diversi intellettuali di cui il libro traccia biografia e pensiero: parecchi erano occidentali, sebbene la situazione pareva «essere bloccata e senza spazi di libertà». Traduciamo: militare a sinistra tra i Cinquanta e i Settanta, come diceva Cioran, significava essere soggetti a scomuniche e ipso facto , a meno di non obbedire in tutto, condannarsi a un destino di eresia. Se in Unione Sovietica si finiva nei gulag ( si veda il capitolo di Andrea Panaccione) e se in Francia arrivò infine il Sessantotto a confondere le acque e le teste ( per il maggio ’68 si parlò di «rivoluzione », «comune», «carnevale» e «psicodramma»), in Italia- dove permaneva il più grande partito comunista d’Occidente, con 2,5 milioni di iscritti -Togliatti vegliava sulla nazionalizzazione del pensiero di Gramsci,costruendo«un’egemonia culturale di corto respiro ». Fino a quando, tra Mauro Rostagno, Lorenzo Milani e l’antipsichiatria di R. D. Laing e David Cooper, non ci si ritrovò «in pochi e in segreto» - come racconta Pietro Clemente - «alla fine del ’68 ad ascoltare a Cagliari Giangiacomo Feltrinelli che ci suggeriva di avviare una via “ guevarista”cominciando a costruire piccoli gruppi eversivi». Di lì agli anni di piombo fu tutta un volata in discesa: di fatto, lo spartiacque storico-critico di L’altronovecento sembra essere più il ’68 che la primavera di Praga e la crisi dello stalinismo. Come racconta altrove Paul Veyne, infatti, alla fine dei Cinquanta dubbi e collere nel Partito erano ancora sotto controllo. Era stato fabbricato persino un nuovo verbo: quando si temeva di perdere la fede, «si andava a farsi Althusser», che voleva dire «andare a farsi falsamente rassicurare, senza crederci». Lo stesso Veyne non esitò ad accostare marxismo e cristianesimo, entrambi seducenti per via del loro «calore individualizzante» e del loro volere «il bene degli umili», e non certo per il coté millenarista. Tra l’altro, Veyne e il nostro Paolo Volponi sarebbero potuti comparire in un volume come questo, dove si vorrebbe pure un capitolo dedicato a Manès Sperber. Ma è mancanza rimediata dal recupero di Franco Fortini, dell’ormai poco frequentato Castoriadis, di Danilo Montaldi e di Debord, spesso citato ma poco «vissuto» dal popolo di internet. Fortini - poeta del quale Versi scelti 1939-1989 , che Einaudi dovrebbe rimettere in commercio, testimonia tutto il peso specifico; autore di Verifica dei poteri , uno dei rari testi di riferimento per una critica «non eclettica e non agnostica »; traduttore, tra l’altro, di Statura umana di C.F. Ramuz, marginale quanto obiettiva riflessione sui «sovieti» a firma del grande scrittore romando - fu forse il comunista più doloroso del nostro secondo Novecento ( ancor più doloroso di Calvino e Pasolini, tra le cui superficiali e disattente ortodossie si ritrovò schiacciato) e il capitolo che gli dedica Daniele Balicco è tra i più sentiti del volume. Montaldi, invece, con i suoi Autobiografie della leggera e Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati negli anni del «miracolo» (ora per Donzelli), è il precursore (senza dimenticare Rocco Scotellaro e Gianni Celati) della letteratura «socio-antropologica» di oggi, da Marco Ciriello ( Tutti i nomi dell’estate ) alla collana «Contromano» di Laterza. Una delle poche eredità di quegli anni ancora valide. Guy Debord (accanto al quale Mario Pezzella cita Don De- Lillo), invece, fu il vero punto di superamento (disperato) del comunismo: negli anni Ottanta le leggi sia del capitalismo che del comunismo, «stravolte da intese di nuovo genere», si misero «a dormire », la società dello spettacolo si realizzò compiutamente, e Debord si suicidò. Era il 1994. Dieci anni prima Foucault, cui Mauro Bertani dedica un intenso capitolo, era morto (volontariamente?) di Aids. Baudrillard parlò a questo proposito di «olocausto di un’intera generazione di intellettuali » che a differenza di Sartre non morirono pomposamente, ma scomparvero per implosione. Appunto, come il comunismo.