Bianca Garavelli, Avvenire 28/4/2011, 28 aprile 2011
E IN SETTE ANNI GARIBALDI DIVENNE UN MONUMENTO
Il tema attraversa la storia, ancora giovane, dell’Italia unita, e diventa un mito: Garibaldi e l’impresa dei Mille e, più generale, il Risorgimento. Massimo Onofri ne L’epopea infranta. Retorica e antiretorica per Garibaldi (Medusa, pp. 138, euro 15,50), da oggi in libreria, lo affronta analizzando non solo romanzi e saggi, ma anche quadri e film, con uno sguardo critico unitario, penetrante e acuto. Con un prologo e un epilogo che forse si toccano, o forse lasciano il cerchio aperto a nuove esplorazioni. Infatti, che legame c’è fra il canone degli autori risorgimentali, divisi nei credi politici ma uniti da uno spirito nazionale che sembra preludere a un tempo di prosperità e concordia, e romanzi come L’alfiere di Carlo Alianello e Signora Ava di Francesco Jovine, entrambi del 1942?
Forse nessuno. Mentre invece ne esiste uno stretto fra questi ultimi romanzi, a cui si può aggiungere Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, del 1958, e un anti-canone risorgimentale, in cui gli autori sono tutti meridionali, come Verga e De Roberto, e interpretano in modo antiretorico la nascita del regno d’Italia. È come se, secondo Onofri, che è critico letterario per prestigiose testate, studioso della letteratura sulla mafia e ordinario di letteratura italiana contemporanea all’Università di Sassari, fosse nata una guerra anche per appropriarsi del mito di Garibaldi, e le sorti di questa guerra mostrassero le debolezze politiche, gli squilibri sociali dello Stato italiano. Il punto di partenza dell’ampia indagine è proprio il tempo che segue il Risorgimento, gli anni dal 1860 al 1867, segnati da Quarto e da Mentana, entrambi teatri di eventi cruciali che nascondono i semi del futuro. Quarto rappresenta le possibilità aperte, e l’entusiasmo della partenza verso un’Italia fondata su uguaglianza e giustizia. Mentana invece rappresenta la sconfitta di questo stesso entusiasmo: il trionfo di un autoritarismo che schiaccia la volontà popolare, il soffocamento sul nascere di una vera possibilità di democrazia. Simbolo letterario di questi passaggi è Giuseppe Cesare Abba, scrittore garibaldino che prese parte all’impresa dei Mille, e che con le diverse opere sulla sua stessa esperienza illustra bene il passaggio dalla cronaca al mito. Mentre il Taccuino è un resoconto realistico dei fatti, in cui Garibaldi campeggia come un uomo coraggioso e sereno, uno stratega intelligente ed equilibrato, nelle Noterelle, punto d’arrivo dell’elaborazione del ricordo attuata dall’autore, l’eroe si è trasformato in mito, già molto simile ai monumenti equestri che lo ritraggono come un cavaliere invincibile. Tanto che Abba è stato definito l’agiografo di Garibaldi, colui che lo ha raccontato come il fondatore di una religione. I decenni successivi mostrano, sempre attraverso opere importanti, come questo mito diventi dapprima «moneta scaduta» negli anni Novanta, a un primo trentennio dalla fondazione del regno, come testimonia il Pirandello di I vecchi e i giovani, e quindi torni in auge per sostenere lo sforzo dell’Italia già nazionalista tra il 1907 e il 1911, anniversari importanti, attraverso un Carducci influenzato da Abba e il Pascoli dei Poemi del Risorgimento. Si apre così la strada al recupero del garibaldinismo in chiave fascista, tracciata da Onofri soprattutto grazie al confronto fra due quadri: «I bersaglieri alla presa di Porta Pia» di Onorato Carlandi, del 1872, e «Marcia su Roma» di Giacomo Balla del 1931-33, che ne sembra la rielaborazione mirata, in cui gli anonimi bersaglieri assumono volti definiti, per sottolineare la continuità fra un Risorgimento eroico e la volontà di potenza fascista. Ma è con la recente versione di un episodio dell’impresa dei Mille dipinta da Renato Guttuso, «La battaglia di Ponte dell’Ammiraglio» del 1952, un quadro travisato e sottovalutato, che si evidenzia una ben diversa continuità: con le oppressioni di oggi e gli uomini liberi che le combattono, al di fuori di ogni mitica epopea, con gli «eterni garibaldini e gli eterni borbonici» dell’Italia dei nostri giorni.