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 2011  aprile 27 Mercoledì calendario

Il mistero Traven, un monumento all’autore ignoto - Fra la prima e la Se­conda guerra mon­diale la letteratura del ’900 si arricchì di uno scrittore di cui, tranne l’opera, si ignorava tutto: il vero nome, la vera nazionalità, i lineamenti, persino il sesso

Il mistero Traven, un monumento all’autore ignoto - Fra la prima e la Se­conda guerra mon­diale la letteratura del ’900 si arricchì di uno scrittore di cui, tranne l’opera, si ignorava tutto: il vero nome, la vera nazionalità, i lineamenti, persino il sesso... Si faceva chia­mare B. Traven,ma c’era chi so­s­teneva che il cognome fosse Fei­ge, o Torvan, o Marut, o Croves, che fosse statunitense di lingua tedesca, o scandinavo nato per caso a Chicago, o tedesco emi­grato in Centro America... C’era anche chi riteneva che i cogno­mi in fondo non significassero nulla,ma fossero il tragico e l’epi­co di cui erano­intessuti i suoi ro­manzi a dare la giusta indicazio­ne e che quindi in realtà Traven fosse Jack London, dato per mor­to­e invece in qualche modo risu­scitato, Ambrose Bierce, dato per scomparso in Messico, Ar­thur Cravan, dato per scompar­so in mare... Sulla base della completa assenza di figure fem­minili nei suoi libri, ci fu infine anche chi teorizzò che B. Traven fosse una donna, Esperanza López Mateos, curatrice dei suoi diritti d’autore. Il fatto che fosse apparsa sulla scena una ventina d’anni dopo i primi gran­di successi, quando lei era cioè ancora una bambina, e Traven avesse continuato a pubblicare anche dopo che lei era morta, venne considerato ininfluente. In fondo i misteri sono tali per­ché non li si può spiegare. Nato nel 1882, oppure nel 1890, Traven morì nel 1969, qua­si novantenne o quasi ottanten­ne: il suo ultimo libro, Il canale , era uscito con scarso successo nove anni prima, ma alla fine de­gli anni Quaranta si era verifica­to il vero ritorno di fiamma in po­polarità e quindi il riaccendersi dell’interesse intorno alla sua identità. Era successo che John Huston aveva ridotto per lo schermo Il tesoro della Sierra Madre ( 1927), affidando il ruolo di Dobbs,il vagabondo con l’os­sessione del denaro, a Humprey Bogart e il film era divenuto un caso.Quelle vite miserabili,l’avi­dità che le animava, il rancore, l’odio, l’istinto omicida e insie­me la banalità del male, la filoso­f­ica rassegnazione con cui gli as­sassini divenivano a loro volta vittime, viravano l’esistenza al nero e non consentivano più né eroi né ideali. Finita la propagan­da bellica, il cinema si riprende­va i propri diritti e il romantico Rick di Casablanca poteva per­mettersi di divenire Dobbs la ca­rogna... Prima del Tesoro della Sierra madre , Traven aveva pubblica­to, nel 1926, La nave morta , l’al­tro suo romanzo più letto, più ci­tato e più venduto. Raccontava l’odissea di Gerard Gales, mari­naio americano lasciato a terra dalla sua nave, salpata mentre dormiva ubriaco in una casa di piacere. Senza soldi, senza docu­menti, Gales diveniva un paria, uno che ufficialmente non esi­ste più: finiva per imbarcarsi su una«nave morta»,come veniva­no chiamate quelle bagnarole destinate all’affondamento da armatori privi di scrupoli, imbar­cazioni fantasma per uomini fantasma, obbligati ad an­dare per mare non poten­do più scendere a ter­ra... Un po’ tutti i ro­manzi di Traven, da Il ponte della giungla a Spero­ni nella polvere , per citarne anco­ra due, oscillano intorno ai temi che Il tesoro della Sierra Madre e La nave morta prendevano di petto: la burocrazia occhiuta de­gli Stati e l’anarchia violenta dei singoli, il destino miserabile di chi non ha santi in paradiso, il ri­fiuto delle regole borghesi ma anche delle parole d’ordine del­le ideologie allora di gran moda. «Coloro che fino a quel momen­to essi avevano considerato fra­telli proletari, diventavano natu­ralmente nemici dai quali biso­gnava guardarsi. Fino a che non avevano posseduto nulla di valo­re, erano stati schiavi della fame. Ora tutto era cambiato. Aveva­no ormai varcato il confine oltre il quale un uomo diventa schia­vo dei propri beni». Forte di una militanza anarco-socialista nel­la-Germania dei moti spartachi­sti e dei Corpi franchi, preludio a Weimar e poi a Hitler, Traven si era fatto un’idea senza illusioni sul genere umano e capitalismo e bolscevismo gli erano sembra­te alla fine le due facce di un’identica medaglia,la schiavi­tù del singolo nel nome del dena­ro o di una dottrina politica, il mercato o il partito unico come padroni incontrastati contro i quali l’unica resistenza possibi­le era l’arte della fuga: non farsi trovare, non rendersi complici. Anche su questo si basava il suo rifiuto di un’identità come scrit­tore: «La biografia di un autore non ha nessuna importanza. Se non si capisce chi è l’uomo dalle sue opere, o l’uomo non vale niente o ha scritto soltanto roba da niente». E ancora: «Io sono un artigiano, un lavoratore co­me tanti. Scrivo invece di cuoce­re il pane o fare altro. La mia vita appartiene a me,l’opera al pub­blico ». Su questa curiosa quanto affa­scinante figura, oggi in Italia pressoché dimenticata e che pu­re edi­torialmente varrebbe la pe­na ritirar fuori, Vittorio Giacopi­ni ha scritto un saggio interes­sante, L’arte dell’inganno (Fan­dango, pagg. 280, euro 16): l’in­ganno della Letteratura, l’ingan­no della Politica. Giacopini è uno specialista in biografie, co­me dire, apocrife, che sono qual­cosa­di più e di meglio di una bio­grafia romanzata, perché costru­ite sull’em­patia ma anche sul gu­sto dell’invenzione e della narra­zione, con un lavoro intelligente di assemblaggio, ma anche di notazioni e gusti personali. Nel caso in questione nuoce forse a L’arte dell’inganno un eccesso febbrile, nel senso di uno stile a volte troppo eccitato perché troppo partecipe nella ricerca di una qualsivoglia motivazione ideologica, il che fa perdere a Giacopini un punto importante della vicenda Traven. Non si chiede infatti come e perché un romanziere così anarchico nel suo rifiuto delle istituzioni e del­le­convenzioni fosse in realtà riu­scito a condurre un’esistenza che gli aveva permesso di aver ra­gione di entrambe. Paradossal­mente, Traven non è uno scritto­re senza identità, ma uno scritto­re il quale, in possesso di un’identità reale (se così non fos­se non potrebbe viaggiare, avere documenti, stipulare contratti, sposarsi eccetera), riesce a ren­derla inesistente e non pubbli­ca. È sì l’uomo che inventa la «scomparsa dello scrittore», ma può farlo proprio perché a ogni istante può rivendicarne l’esi­stenza a petto di chi veramente conta:autorità statali,editori,uf­fici delle tasse... È il caso limite di chi sceglie di vivere come pura scrittura, ma può farlo soltanto perché non gli importa nulla del­l’apparenza. È sufficiente esiste­re, e forse è già troppo.