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 2011  aprile 26 Martedì calendario

Primavera araba? Macché è il boom di Israele - Fra le sorprese di questa settimana ve ne è una che sem­bra un pesce d’aprile: una so­cietà di rating minaccia di ab­bassare la credibili­tà finanziaria degli Stati Uniti mentre eleva quella di Isra­ele

Primavera araba? Macché è il boom di Israele - Fra le sorprese di questa settimana ve ne è una che sem­bra un pesce d’aprile: una so­cietà di rating minaccia di ab­bassare la credibili­tà finanziaria degli Stati Uniti mentre eleva quella di Isra­ele. Anche se esisto­no dubbi sul valore di queste valutazio­ni è legittimo chie­dersi cosa giustifi­chi l’aumento del­la credibilità finan­ziaria dello stato ebraico. Israele è presentato dalle si­nistre e dagli arabi come un paese raz­zista e instabile in cui è doveroso di­sinvestire. Cosa in­duce a credere nel­la aumentata di 50 volte in sessanta anni. Le cause di questa crescita «cinese» sono analizzate da due giornalisti, Dan Senor e Saul Singer, in un libro pubbli­cato dal prestigioso Council of Foreign Relations di New York intitolato Start Up Nation , «La storia del miracolo economi­co di Israele». Libro che in po­chi mesi ha venduto centomi­la copie ed è stato tradotto in diecine di lingue.Non sarà l’og­g­etto di questo articolo ma è cu­rioso notare che non menzio­na la scoperta di queste fonti di energia. Forse per non pubbli­cizzare un fatto che ha ricevu­to sinora pochissima attenzio­ne. Comunque stiano le cose, al­la base dello sviluppo econo­mico israeliano e del «segreto» del suo potenziale energetico c’èilboicotto arabo. Ha spinto da un lato Israele a cercare me­todi per superarlo e dall’altro ha per anni impedito alle socie­tà petrolifere legate ai paesi di interessarsi al suo potenziale energetico. Quasi 500 trivella­zioni condotte da Israele in 50 anni non hanno dato che mise­ri risultati mentre l’interesse per i giacimenti di gas era limi­tato dall’abbondanza e basso prezzo del petrolio. Solo nel 1999 la società israeliana De­lek e quella texana Noble Ener­gy scoprirono e chiamarono Noa il primo giacimento sotto­marino dotato di 7,6 miliardi di mc di gas. Poca roba, ma ad esso seguì la scoperta dei giaci­menti sottomarini di Tamar, Dalit e Leviatan con un poten­ziale di 3,4 trilioni di mc di gas. Due terzi sono esportabili, do­po aver coperto le necessità israeliane. Gli effetti si fanno sentire. La Società elettrica israeliana, convertita dal car­bone al gas, ha risparmiato 55 miliardi di dollari e diminuito il costo dell’energia elettrica dell’11%. La dipendenza dalle forniture di gas egiziano è di fat­to cessata. La battaglia fra il go­verno e i gruppi privati che han­no sviluppato questo tesoro sottomarino è terminata con un compromesso che permet­te allo stato di aumentare gra­datamente le basse royalty (12%) fissate nel 1952 e creare un fondo sovrano per garanti­re l’investimento dei guadagni nella ricerca scientifica, nella politica sociale e sanitaria. Le ricadute politiche e strate­giche sono enormi specie nel momento in cui l’intero Me­di­o oriente è sconvolto dalla ri­voluzione araba. Grazie alla fi­r­ma con Cipro per la spartizio­ne e lo sfruttamento del fondo marino (accordo che ha irrita­to la Turchia) e la possibilità di creare in Grecia centri di lique­fazione del gas israeliano, Isra­ele si rivela fonte sicura di idro­carburi per l’Europa, indipen­dentemente dal beneplacito russo e arabo. Trasforma, so­prattutto, lo stato ebraico in as­set per l’Occidente piuttosto che in problema. La disponibi­lità di larghe entrate permette al governo di Gerusalemme di liberarsi dai debiti, di immagi­nare politiche più generose e meno sospettose nei confronti tanto della minoranza araba israeliana (1,3 milioni) quanto dei palestinesi a cui sarà possi­bile offrire una partnership energetica capace di rinforza­re la volontà di cooperazione piuttosto che quella di distru­zione e vendetta. Nel momento in cui tutti i pa­esi sono obbligati dal disastro atomico giapponese a ripensa­re le loro politiche nucleari; in cui i governi arabi sono obbli­gati d­alle rivolte popolari ad ab­bandonare la politica della sta­bilità legata alla dittatura in cambio del sostegno interna­zionale; la trasformazione di Israele da cliente a fornitore di energia e da fulcro di crisi a mo­dello democratico di sviluppo multiculturale e multireligio­so non è solo un «miracolo» economico. È una speranza che nessuno ha diritto di spe­gnere.