FULVIA CAPRARA, La Stampa 27/4/2011, 27 aprile 2011
“I miei criminali mai mitizzati” - Per l’inaugurazione della retrospettiva che la Cinematheque Française ha deciso di dedicargli, la sera del 29 giugno a Parigi, il maestro Francesco Rosi, 88 anni lucidi e dolenti, ha voluto che si proiettasse Salvatore Giuliano
“I miei criminali mai mitizzati” - Per l’inaugurazione della retrospettiva che la Cinematheque Française ha deciso di dedicargli, la sera del 29 giugno a Parigi, il maestro Francesco Rosi, 88 anni lucidi e dolenti, ha voluto che si proiettasse Salvatore Giuliano. In quel film, capolavoro indiscusso del cinema di storia e di mafia, guardato con rispettosa ammirazione da registi come Martin Scorsese, c’è il segno fermo e chiaro della sua ispirazione artistica, la luce che ha illuminato l’intera carriera: «Il mio è sempre stato un cinema di testimonianza e di memoria. Fin dall’inizio, ho voluto guardarmi intorno, per raccontare la realtà non solo nei suoi aspetti più evidenti, ma anche, e soprattutto, attraverso la tela dei rapporti misteriosi e nascosti tra i poteri, a partire da quello criminale, enormemente aumentato nel corso degli anni». Nello sguardo di Francesco Rosi la vicenda oscura del bandito Giuliano non assume mai contorni epici, quell’uomo con la faccia a terra e la canottiera sporca di sangue non diventa mai un eroe: «Ho descritto i criminali senza il gusto dell’avventura e del personaggio che oggi è invece tanto diffuso. Giuliano l’ho visto da morto e da lontano, inserito nel contesto delle sue azioni, evitando accuratamente di farlo diventare un mito». Promossa dalla Cinematheque insieme all’Istituto italiano di cultura, aperta dall’incontro pubblico tra l’autore e il critico Michel Ciment e dalla proiezione del documentario su Rosi di Roberto Andò, la retrospettiva proporrà la filmografia completa del regista. Ad accompagnarlo, la prima sera, ci sarà la figlia Carolina, che fa l’attrice di teatro e che ha anche lavorato spesso sui set, accanto al padre. Ogni titolo corrisponde a un passo in quell’osservazione del sociale mai facile e accondiscendente, sempre razionale, ai limiti del pessimismo, sempre convinta, però, della necessità del fare e del reagire. Nella Sfida , del 1958, il film del debutto, con Josè Suarez e Rosanna Schiaffino, c’era la descrizione «della camorra di allora, di tipo agricolo, praticata da piccoli boss locali su contadini taglieggiati, al fine di mettere le mani sul mercato dell’ortofrutticolo». Prima dell’esordio c’era stata la scuola di Luchino Visconti, durante la lavorazione della Terra trema , ad Acitrezza, dove Rosi era assistente alla regia insieme a Franco Zeffirelli: «La sceneggiatura nasceva giorno per giorno, fu un apprendistato fondamentale, è lì che ho imparato a fare il cinema, disegnavo i personaggi con i loro costumi e, dovendo occuparmi dell’amministrazione tecnica delle riprese, tenevo un diario di lavorazione. Quello è stato il viatico per imparare a fare il cinema della realtà, un percorso al quale non mi sono più sottratto». Nel 1963 Rosi girava Le mani sulla città (Leone d’oro alla Mostra di Venezia), tema il dilagare della speculazione edilizia a Napoli, tra i materiali utilizzati per la sceneggiatura i verbali delle riunioni del Consiglio comunale della città, con la cronaca degli scontri tra le destre e le sinistre: «Volevo parlare della città, ma ho subito capito che il suo futuro, in quel momento, era legato alle scelte riguardanti l’assetto urbanistico». Le radici piantate nel reale non levano ai film di Rosi un briciolo di pathos. Sia quando parla di uomini contro, come il protagonista del Caso Mattei , sia quando descrive i turbamenti di uomini in crisi, come i Tre fratelli interpretati da Vittorio Mezzogiorno, Michele Placido e Philippe Noiret: «Attraverso le vicende di un giudice, di un operaio e di un insegnante, affrontavo la questione del terrorismo in Italia. Siamo stati l’unico Paese europeo a vivere dieci anni di terrorismo crudele, spaventoso, disumano». Il ricordo di Cadaveri eccellenti è legato al sequestro Moro: «Il rapimento avvenne mentre giravo a Palermo, sono andato avanti per tutto il periodo della prigionia, il film ha risentito del mio desiderio di testimioniare quel terribile momento». Nel romanzo di Carlo Levi Cristo si è fermato a Eboli, Rosi ha portato l’eco della questione meridionale e delle letture giovanili dei testi di Gaetano Salvemini e Giustino Fortunato: «La vicenda dell’intellettuale al confino, costretto dagli abitanti del paese, a riprendere la sua professione di medico, mi diede il modo di portare alla luce zone d’Italia di cui non si immaginava l’arretratezza». Il cinema, dice Francesco Rosi, «serve ad agitare problemi, dai miei film non vengono mai fuori celebrazioni di personalità deviate, ma piuttoso il quadro dei rapporti tormentati tra giustizia e illegalità». Un quadro che oggi non è semplice dipingere: «Assistiamo impotenti alla scoperta di ingerenze tra potere politico e potere criminale, trasmigrazioni da una parte all’altra che in passato non erano pensabili. E’ molto difficile pensare di poter raccontare l’Italia di oggi».