SANTO ALLIGO, Tuttolibri - La Stampa 23/4/2011, 23 aprile 2011
“Insegnò Zeri che non sono carte povere” - La bella fotografia di Enrico Sturani lo ritrae a uno stand zeppo di memorie sovietiche
“Insegnò Zeri che non sono carte povere” - La bella fotografia di Enrico Sturani lo ritrae a uno stand zeppo di memorie sovietiche. Sarà un nostalgico, oppure ha trovato in quell’edicola di San Pietroburgo pane per i suoi denti; le amate, sudate, studiate cartoline? Un interesse che lo ha portato a diventare il massimo studioso di queste fragili e volatili carte, tanto da essere «Il cartolinaro» (come lui ama definirsi) per antonomasia. Sturani è figlio di Mario, ceramista inarrivabile, disegnatore (sua la splendida copertina frassinelliana di Moby Dick ), entomologo e scrittore (ma il suo romanzo autobiografico Il maglione rosso attende ancora di essere pubblicato). Laureato a Torino in filosofia, per anni ha scritto manuali per gli alunni delle scuole medie; poi molti libri in cui sviscera la sua passione di «cartolinaro». Ricordiamo Otto milioni di cartoline per il duce , L’Italia in posa (per il ministero dei Beni Culturali) e Memorie di un cartolinaro , il suo libro più utile per conoscere le vicende che ruotano intorno al mondo dei collezionisti; qui l’autore descrive, con autoironia, tutte le situazioni, i personaggi e i comportamenti in cui si è trovato coinvolto nel mettere insieme la sua immane collezione di cartoline; ma, più che l’estensione, ciò che impressiona è la varietà dei soggetti: militari, paesaggistici, storici, donnine, illustratori, arte, cronaca, scatologici, politici, animati... Ora, dopo l’ultimo nato, cARToline. L’arte alla prova della cartolina , Sturani è al lavoro su altri due nuovi volumi, tiene conferenze (anche a Helsinki e a Tokyo) e corsi universitari. Certo, da una collezione di 150.000 pezzi cosa potrà tirare ancora fuori questo incallito «cartolinaro»? Attenzione, però. Se non si è vaccinati, a collezionar cartoline c’è anche il rischio che «un bonario hobby generi un mostro». Parola di Enrico Sturani. Come e quando è nato il suo interesse storico per la cartolina, per quelle che ancora qualcuno si ostina a chiamare «carte povere»? «In una casa dell’intellighenzia torinese con alle pareti quadri di Casorati, in biblioteca le prime edizioni di Pavese con dedica, ospite - sino al 1954 - il nonno professore (Augusto Monti), verso gli anni del liceo, il mio Edipo ha cominciato a manifestarsi spedendo ai miei le cartoline più kitsch che trovavo. Una volta la portinaia, porgendone una a mio padre, commentò: "Credevo che questa fosse una casa signorile". Poi, arrivati agli anni Settanta, alla mitica libreria dell’"Ebreo" (il proprietario aveva l’aria di un profeta), arrivò un’intera, enorme collezione di cartoline di inizio Novecento: e tutte profeticamente corrispondenti al gusto collezionistico più moderno: il fior fiore dell’Art Nouveau, dei nudi, dei tipi locali. Nessuno le comprava, giudicandole care: 750 lire una per l’altra. Ormai mi ero trasferito a Roma, ma ogni volta che venivo a trovare i miei, ripartivo con una 24 ore piena: diciamo un quattro chili. Sul catalogo francese Neudin erano segnate a decine, se non a centinaia di franchi; pensavo di portarle a Parigi, rifarmi i soldi di viaggio e soggiorno e trattarmi a ostriche e champagne; invece scrissi uno, due... dieci articoli su "L’art nouveau alla luce di uno spazio bianco" (a inizio ’900 il messaggio andava scritto lato immagine; e negli Anni Settanta andavano di moda le ricerche strutturaliste). Era iniziata, più ancora che la collezione, un campo di studio che considerava la cartolina in tutta la sua estensione: scrissi poi anche a proposito delle cartoline raffiguranti Mussolini e su quelle scatologiche, su quelle raffiguranti insetti o tipi sardi». Che cosa ricorda delle amicizie paterne? «Pavese e mio padre erano compagni di banco al ginnasio; poi mio padre fu bocciato per il solo latino (e gli piaceva ricordare che poco dopo trovarono quel professore impiccato con la cravatta nei cessi della scuola). Mio padre venne messo in collegio a Monza dove si era iscritto alla neonata Scuola di Arti Decorative. L’amicizia con Pavese si strinse con un fitto scambio di lettere e proseguì quando tornò a Torino come pittore; frequentavano entrambi la “banda” che si era formata attorno al loro professore di lettere, Augusto Monti (di cui mio padre sposò la figlia). Nel dopoguerra veniva ogni tanto a casa nostra Massimo Mila, che pareva la controfigura di Jean Gabin e raccontava straordinarie storie alpinistiche. Si seccò quando, negli anni Ottanta, gli passai una serie di fotocopie di cartoline raffiguranti donnine musicanti in pose allusive, chiedendogli di commentarle; scrissi poi io l’articolo "Quando Freud dirigeva l’orchestra". Pavese invece non lo incontrai mai: nel 1940 mia madre, incinta di me, lo invitò a cena; "No grazie - fu la sua risposta -: le donne col pancione mi fanno schifo". Ovviamente non ripeté mai più l’invito». Suo padre ha lasciato un libro manoscritto che attende ancora di essere pubblicato. Lo ha letto? «Negli Anni Trenta, mio padre, come ogni pittore, fece il viaggio alla Mecca dell’arte, Parigi. Ma per campare dovette accettare un lavoro di domestico nella famiglia di un ex ammiraglio. Tornato, con le avventure di Parigi faceva divertire tutti. Poi misero in galera il nonno Monti, poi ci fu la Resistenza in cui combatté con i partigiani, poi l’impegno nel Partito Comunista. Nel fatidico ’48 mise per scritto le avventure di Parigi, trasformandole in un romanzo di formazione politica: un’operazione di realismo socialista ancor oggi interessante per capire quel periodo. Ebbe l’ingenuità di far leggere a Pavese questo suo Maglione rosso ; invece di dirgli le proprie impressioni a titolo di amico, Pavese combinò una riunione redazionale all’Einaudi, sparando a zero: non ebbe pietà per gli errori di grammatica, gli anacoluti, le ingenuità ideologiche… Insomma, era pittore, guadagnava come direttore artistico della Lenci, aveva sposato la figlia di Monti, aveva una bella famiglia, aveva fatto il partigiano; non pretendesse ora di fare anche lo scrittore! I rapporti con Pavese si raffreddarono, quelli con la letteratura abortirono. Dopo anni di cassetto casalingo, ora il dattiloscritto è passato a quello di un editore, in attesa dei fondi per pubblicarlo». Quali sono state le letture giovanili? «Ho cominciato a leggere molto tardi e, sino al liceo, solo Paperino. Ma sono fiero di essermi solo e sempre limitato a quelli che allora dicevo “veri” e che poi scoprii essere ideati e disegnati dal grandissimo Carl Barks. Li ho sempre tenuti tutti, a formare un’autentica “Paperoteca”. Poi, all’università, feci filosofia e, volendomi laureare con Abbagnano, chiesi a Viano, suo brillante assistente, una tesi sulla forma degli oggetti d’uso. Invece di dirmi che con la storia della filosofia non c’entrava, o di segnalarmi il grandissimo antropologo Leroi-Gourhan (autore di opere fondamentali in fatto di tecnologia comparata), mi disse di leggere Merleau-Ponty. Nel primo libro non trovai nulla. Nulla nel secondo, e così via. Alla fine ero pronto per una tesi su Merleau-Ponty. Poi passai ai libri scolastici. Finiti questi passai alle cartoline e fu fondamentale la lettura di tutti i libri di Federico Zeri: mi insegnarono che l’arte si incarna in precisi materiali, più o meno consunti dal tempo, restaurati, localizzati e dislocati. Fui molto lieto quando, mandatogli un mio libro, mi rispose che se avesse dovuto tornare indietro gli sarebbe piaciuto occuparsi di questi settori apparentemente minori in cui meglio si sente il polso di un’epoca». C’è una cartolina per cui farebbe una follia? «Farò inorridire i collezionisti, ma invece dei pezzi che non mi sono aggiudicato alle aste per corrispondenza perché troppo cari, ho infilato nell’album la loro riproduzione. Ai saloni della cartolina non vado angosciato, con il foglietto della “mancolista”, ma mi siedo tranquillo al primo banco in cui mi imbatto e comincio a passare gli album uno per uno; alla domanda "Che cosa cerca?", rispondo "Un po’ di tutto"; quando poi chiedo di vedere le cartoline di bambini o quelle di fiori, chi già non mi conosce, mi prende per un principiante, e per giunta scemo. Insomma, dall’alto del paio di metri cubi della mia collezione, non mi sento come un innamorato pronto a fare pazzie per conquistare una bella che se la tira, ma come un sultano: se una sera la bruna circassa ha mal di testa, pazienza, ci sarà sempre la bionda o la rossa. Questo è il grande vantaggio della collezione generale rispetto a quella iperspecializzata».