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 2011  aprile 23 Sabato calendario

La Signorina in ferro che stregò Parigi - Lo si direbbe un romanzone postmoderno, a giudicare dai personaggi, tutti arcinoti e molto eterogenei: Buffalo Bill, Van Gogh, Edison, Rosa Bonheur e Sarah Bernhardt, Maupassant, James Gordon Bennett, lo scià di Persia, Toro Seduto, Whistler, Annie Oakler cioè la campionessa massima di tiro a segno con il fucile, Mark Twain, il signor Otis quello degli ascensori

La Signorina in ferro che stregò Parigi - Lo si direbbe un romanzone postmoderno, a giudicare dai personaggi, tutti arcinoti e molto eterogenei: Buffalo Bill, Van Gogh, Edison, Rosa Bonheur e Sarah Bernhardt, Maupassant, James Gordon Bennett, lo scià di Persia, Toro Seduto, Whistler, Annie Oakler cioè la campionessa massima di tiro a segno con il fucile, Mark Twain, il signor Otis quello degli ascensori... La protagonista poi, la Demoiselle , ha i tratti decisi dell’icona pop: gambe possenti, fianchi snelli, un’invidiabile altezza, il collo lunghissimo e al posto degli occhi un faro. E invece è storia vera, anzi: la vera storia, per niente post e tutta moderna, della Signorina in Ferro, il puntiglioso resoconto del suo concepimento, della sua nascita, infanzia, adolescenza, fino al gran debutto in società. Ma cominciamo dall’inizio, come fa Jill Jonnes, l’autrice. Avrebbe potuto essere una gigantesca ghigliottina, il simbolo dell’Exposition Universelle del 1889, uno specialissimo arco di trionfo sotto il quale avrebbero dovuto passare tutti i visitatori, ben macabra porta d’ingresso per le celebrazioni organizzate a cento anni dall’abbattimento della monarchia in Francia. Tra i progetti che parteciparono alla gara e che il commissario dell’esposizione si trovò a dover esaminare c’era anche quello. Si affrettò ovviamente a escluderlo: l’intento era inneggiare alla Repubblica, non ricordarne gli aspetti «discutibili». La palma la riportò, ben più adeguatamente, il progetto intitolato Tour en fer de trois cents mètres . Era di un ingegnere francese, Gustave Eiffel, la cinquantina avanzata, elegante nella sua sobrietà, specializzato in ponti ferroviari. Al commissario Lockroy bisogna dare atto di notevole perspicacia. Ce ne voleva una buona dose per scommettere su quell’ idea, una torre interamente in ferro, più alta di qualunque monumento - quello a Washington, detentore del record, misurava 169 metri - che avrebbe posato i suoi quattro piedi al centro di Parigi e da lì si sarebbe erta esile e impavida a portare in cielo lo stendardo bianco rosso e blu. Su carta, aveva tutta l’aria di una follia. Bellissima, però, esaltante. Lockroy capì che se Eiffel ce l’avesse fatta, quella torre avrebbe conquistato il mondo, diventando l’insuperabile dimostrazione dell’assoluta supremazia francese in fatto di modernità tecnologica e ingegneristica genialità. Certo è che a nulla sarebbero valse la potente visione di Eiffel e la lungimiranza di Lockroy, se non fossero state supportate dal coraggio dei 199 operai che quella torre, pezzo dopo pezzo e metro dopo metro, misero in piedi. Ventisei mesi di lavoro in condizioni estreme, a anche -10˚ d’inverno e fino a +37 d’estate, per un salario assolutamente impari. Scioperarono per avere un aumento, giunti a una certa altezza (quando ormai da sotto, avvolti nella nebbia, non li si vedeva più). Eiffel, ingegneristicamente, rispose: «Mancate di logica: cadendo da trecento metri non succede niente di diverso che da quaranta. Si muore». E loro continuarono. Non bisogna pensare però che si sia trattato di una partita facile. Di oppositori, feroci, ce ne furono in ogni ambiente. Una lista di intellettuali e scrittori, tra i quali Maupassant e Dumas figlio, firmarono un appello contro «l’odiosa colonna di metallo imbullonato». Ricche signore impugnarono la vista sui Champs de Mars dei loro appartamenti: che fine avrebbe fatto? I catastrofisti: mai e poi mai la torre avrebbe resistito ai venti. Eccetera. Lui, l’ingegnere del ferro, li sbaragliò tutti. Ai primi di maggio dell’89, all’apertura dell’Exposition - 90 ettari di fiera sdraiata lungo la Senna, frutto dell’amplesso tra la Belle Epoque francese e l’Età dell’ Oro americana, consumato a dispetto delle monarchie europee disdegnose e assenti - la sua Torre era pronta. Unico neo: in cima - là dove, sull’ultima piattaforma, Eiffel aveva fatto costruire un appartamento per sé, «il nido dell’aquila» - ci si doveva andare a piedi, e pericolosamente. Gli ascensori, affidati all’americana Otis, mancarono l’appuntamento di qualche settimana. Il disguido comunque non oscurò la grandezza dell’impresa che, anche commercialmente, fu un totale trionfo. Le altre due vedettes del centenario, americane doc, Buffalo Bill e Thomas Edison, contribuirono a rendere l’evento indimenticabile. Il primo portando a Parigi per l’occasione il suo Wild West , il celeberrimo show che metteva in scena cowboy, indiani e bufali con grandi effetti e al culmine del quale si esibiva con fucili e rivoltelle Annie la tiratrice; il secondo, Edison, accettando che il fonografo, l’ultima sua invenzione, venisse celebrata proprio là in cima, nell’appartamento aereo di Eiffel. Scalarono la Torre i pellirosse dello show come lo scià di Persia (quest’ultimo tremando di paura); tante teste coronate, sia pur contrarie alla repubblicana Esposizione, e due milioni di persone nei sei mesi della sua durata, che pranzavano al Café Brébant sulla prima piattaforma e visitavano la redazione lì allestita per l’edizione della Tour del Figaro . Mentre l’ Herald , dalla sede parigina, che il direttore Gordon Bennett junior aveva aperto dopo esser stato cacciato da New York avendo fatto pipì davanti a tutti ad un ricevimento, trasformava ogni visita in cronaca mondana. Fanfara. Onore e gloria. Peccato le pagine di epilogo: lo scandalo di Panama da cui Eiffel si lasciò toccare, Van Gogh suicida, la morte di Toro Seduto, Wounded Knee... la Storia. Superstiti? Incolume, solo lei: la Tour, centoventidue anni a giorni.