FRANCESCO LA LICATA, La Stampa 23/4/2011, 23 aprile 2011
I MISTERI DELL’ULTIMO KAMIKAZE
Come nella migliore tradizione della commedia siciliana, la vicenda che vede protagonista Massimo Ciancimino prende di ora in ora i contorni dell’affaire esposto alla duplice, triplice, infinita lettura.
La calunnia - certa - portata avanti nei confronti del prefetto Gianni De Gennaro sembra funzionare come detonatore per una serie di interpretazioni su «chi è Massimo Ciancimino». Depistatore, mitomane, bugiardo, mafioso, narciso senza limiti: ognuno lo vede, ovviamente, a modo suo. Giudizi comprensibilmente duri, magari un tantino divergenti da quelli che soltanto qualche tempo fa indicavano il figlio di don Vito come detentore di tutte le verità.
Comunque la domanda è legittima: chi è il giovane Ciancimino? Al di là di ogni ragionevole perplessità, il dato che emerge, non da giudizi preconcetti ma dalla ricostruzione degli ultimi avvenimenti, è che abbiamo assistito al suicidio di un teste in parte collaudato ma ancora molto da valutare. Suicidio, già; non ci sono altre parole per descrivere la rovina in cui è andato a cacciarsi Massimo Ciancimino.
Andiamo con ordine: tra i numerosissimi documenti consegnati ai pm (sembra più di 150, passati al vaglio delle verifiche) il teste include anche una vecchia cartolina con una lista di nomi. Secondo quanto riferisce, si tratterebbe di un elenco dettatogli dal padre per indicare una sorte di «supercricca» formata da personaggi delle istituzioni in combutta con centri di potere illegali e con Cosa nostra. Don Vito li definisce il «quarto livello». Tra i nomi ce n’è uno, De Gennaro, che sembra aggiunto in un secondo tempo. Ai giudici, Massimo assicura: «Lo ha aggiunto mio padre, davanti ai miei occhi». E conferma che il padre intendeva riferirsi al prefetto Gianni De Gennaro, oggi direttore del Dis (Dipartimento Informazioni per la Sicurezza).
Successivamente consegna ai magistrati altri scritti del padre e tra questi un foglio dove don Vito aveva vergato il nome del magistrato Giuseppe Di Gennaro. Ebbene, da questo secondo documento sarebbe stato ricavato il nome (De Gennaro) appiccicato all’elenco dei componenti il «quarto livello». Un copia e incolla, insomma, ordito al solo scopo di calunniare il superpoliziotto oggi capo dei servizi segreti.
Una calunnia che non ha retto un attimo e si è disintegrata al primo esame tecnico. Una bugia grossolana, sia per il modo pedestre in cui è stata condotta, sia per il personaggio cui era destinata. Ma davvero è possibile credere che basti una patacca mal confezionata per scalfire anni e anni di onorato servizio e di lotta alla mafia universalmente riconosciuti a De Gennaro?
Ecco perché parliamo di suicidio. Massimo Ciancimino ha offerto ai magistrati una trappola e, subito dopo, l’occorrente per disinnescarla, relegandosi al ruolo di vaso di coccio tra i vasi di ferro. E’ stati lui, infatti, a consegnare il secondo documento, indispensabile ai periti che hanno effettuato la comparazione. E ancora, è stato lui a insistere con la storia del padre che aggiunge il nome «sotto i miei occhi», consacrando così l’esistenza del dolo, necessario per sostenere l’accusa di calunnia. Si è praticamente impiccato con le proprie mani.
I magistrati ieri gli hanno offerto una chance, invitandolo a confessare eventuali complici che avrebbero potuto «impiattargli» quella polpetta avvelenata. Lui si è limitato a dire di non aver falsificato nulla e ciò potrebbe essere vero. Ma allora chi è stato? E, soprattutto, perché ha detto di essere stato testimone oculare, mentre il padre scriveva? Una notazione sembra condivisibile: Massimo Ciancimino non ha ricevuto benefici dalla calunnia a De Gennaro, anzi. Ma allora perché si è fatto trascinare in questa azione degna del più fanatico dei kamikaze?