Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  aprile 24 Domenica calendario

L’AMORE PERDUTO DEL GIOVANE HOLDEN

Nell´inverno del 1952 ricevetti una telefonata da mia madre, Jane Canfield. Mi disse che a casa dei miei genitori, nella Trentottesima strada, ci sarebbe stato un party. «Un party di Harper» specificò. Harper era la casa editrice di cui era presidente Cass, il mio patrigno. Mia madre affermò che sarei stato gradito ospite e che era previsto che vi prendessero parte anche mia sorella minore Jill e suo marito Joe Fox.
Mi ero laureato nel giugno dell´anno prima, in ritardo per i due anni trascorsi in Marina, alla fine della Seconda guerra mondiale, e per un altro anno ancora passato a studiare in Francia. Volevo diventare uno scrittore. L´Harvard Advocate pubblicò un mio racconto. Nel laboratorio di scrittura di Archibald MacLeish avevo iniziato a scrivere un pessimo romanzo, e avevo continuato portandolo a conclusione in modo per nulla interessante alcuni mesi dopo essermi laureato. In quel periodo ero tirocinante nella divisione marketing della Texaco, un´azienda texana, e l´estate successiva sarei stato dislocato in Africa Occidentale. Quelli erano gli ultimi mesi che trascorrevo a New York.
Mia madre proseguì: «Ha accettato l´invito qualcuno che so che ammiri molto, J. D. Salinger».
Le dissi che quasi certamente sarei andato.
Il giovane Holden era stato pubblicato l´anno precedente. L´avevo letto con entusiasmo, ma senza l´enorme ammirazione suscitata in me dai suoi racconti pubblicati sul New Yorker, che mi erano sembrati incomparabili per intensità, specialmente per come riuscivano a trasmettere le più piccole e complesse emozioni dei personaggi.
Quando quella sera arrivai a casa dei miei genitori, Mary, la domestica, aspettava all´ingresso di prendere in consegna i cappotti degli ospiti e potei constatare che la casa era più elegante che mai: c´erano fiori nei vasi e i mobili antichi erano stati tirati a lucido. «Il bar è in veranda», mi comunicò Mary.
Presi un drink e raggiunsi Jane e Cass in salotto, in compagnia di «Mac» MacGregor, direttore di Harper. Subito arrivarono Jill e Joe e per un po´ il party sembrò quasi una riunione di famiglia. Poi, più o meno tutti insieme, arrivarono gli altri ospiti, una trentina circa, e tra loro c´era Salinger.
Un suo primo piano era apparso sulla copertina de Il giovane Holden - capelli scuri impomatati all´indietro, un viso serio e attraente. Quella sera era elegante, indossava un completo dal disegno vagamente scozzese e una camicia bianca il cui colletto era tenuto ben fermo, dietro al nodo della cravatta, da una spilla d´oro. I suoi gemelli brillavano. Perché la sua eleganza mi sorprese?
Mi sentii un po´ intimidito stringendo tutte quelle mani, in particolare quella di Salinger, e fui certo che anche per Jill sarebbe stato così. Joe non era mai timido. Fu l´unico a dire a Salinger che era un vero piacere conoscerlo e che ammirava molto il suo lavoro.
Joe era stato capitano della squadra di nuoto di Harvard. Si era specializzato in inglese, ma mi aveva stupito quando aveva annunciato di voler lavorare in pubblicità. Ai tempi di quella festa vendeva libri per Alfred Knopf, ma in seguito divenne un famoso e stimato editor per la Random House. Lavorò con scrittori del calibro di Truman Capote, Philip Roth e Martin Cruz Smith.
Salinger strinse le mani a tutti, apparentemente a suo agio. Ebbi tuttavia l´impressione - essendo stato fissato da lui dritto negli occhi e avendolo visto stringere le mani di Jill e Joe nello stesso modo - che fosse lieto per la presenza di ospiti di età relativamente giovane. A quel tempo aveva trentatré anni.
La cena fu consumata dagli ospiti tenendo in equilibrio sulle ginocchia i migliori piatti dei miei genitori. I bicchieri erano rabboccati di continuo. Ci si scambiò pettegolezzi letterari. Ogniqualvolta cambiava la portata e arrivavano nuovi drink, spesso si cambiava interlocutore. Per un tempo che mi parve alquanto lungo Jill e Joe e Salinger e io ce ne restammo seduti sul tappeto del soggiorno. Ci chiese di chiamarlo Jerry, poi ci rivolse alcune domande di prammatica su quello che stavamo facendo e sulle nostre motivazioni, ma con una vivacità piacevole e cordiale. Fece parecchi commenti con i quali si schierò dalla nostra parte, tra le fila di coloro che sono agli inizi, e non di coloro che sono già ben avviati in una carriera duratura. La conversazione si animò, e scoprimmo di riuscire a indurci a vicenda al sorriso.
Parve molto interessato al fatto che Jill era pittrice e che i nostri nonni, i genitori di mio padre, fossero stati entrambi pittori e avessero vissuto a Cornish, nel New Hampshire. Salinger ci disse che conosceva Cornish. Dissi a Jerry che avevo scritto un romanzo che nessuno avrebbe pubblicato mai e ne ricevetti un cenno complice, del quale gli fui grato. Il nostro gruppetto si fece sempre più allegro. Alla fine fummo interrotti da Jimmy Hamilton: voleva che Salinger conoscesse qualcuno che a suo dire era importante.
Verso la fine della serata, mentre gli altri ospiti indossavano i loro cappotti, Joe mi trovò nell´atrio anteriore. Mi parlò all´orecchio: «Jerry ci ha invitati a casa sua per un drink. Ti va?».
Indossati i nostri cappotti, noi tre aspettammo che Salinger salutasse. Ci raggiunse, uscimmo in strada e trovammo immediatamente un taxi.
Che svolta imprevista! Era meraviglioso che Salinger si interessasse a noi!
Nell´appartamento, situato in un brownstone verso i quartieri residenziali, Salinger ci chiese che cosa volessimo bere. Mi offrii di aiutarlo con il ghiaccio, ma rifiutò. Preferiva far da sé. Le bottiglie e i bicchieri del bar erano sistemati all´estremità di un bancone tra la piccola cucina e il soggiorno, e ce ne stemmo lì intorno mentre Salinger ci versava da bere. Whisky per tutti, credo. Con i drink in mano, Jill, Joe e io sprofondammo in un lungo divano dirimpetto al bar, con Jill in mezzo a noi. Salinger si accomodò su una sedia collocata di fronte, dietro a un tavolino basso.
Nel mio euforico appagamento mi guardai intorno, osservai i quadri appesi alle pareti della stanza, e persi il filo di quello che Joe e Salinger stavano dicendo, fino a quando non sentii Joe chiedergli: «Dove sei andato al college, J. D.?».
Salinger non rispose subito e in quel silenzio momentaneo l´umore nella stanza cambiò. Trattenni il respiro. Credo che il tono di voce di Joe, da uomo d´affari, potesse suonare vagamente aggressivo. Al mio orecchio era familiare.
Salinger disse con voce piatta: «Un piccolo college nell´Upstate New York. Un college del quale probabilmente non avete mai sentito parlare».
«Quale?» chiese Joe. Nulla lasciava intuire che Joe avesse percepito qualcosa di particolare nel tono di voce di Salinger, se non una semplice informazione.
Dopo un altro breve silenzio, Salinger disse: «Hamilton. Sapere che il nome del college è Hamilton fa qualche differenza?».
«Dov´è Hamilton?» chiese Joe. Aveva davvero bisogno di sapere dove fosse Hamilton? Ebbi paura per come sarebbe potuta andare a finire.
«Presumo che entrambi abbiate frequentato una delle Ivy (Ivy League, le università più prestigiose ed elitarie, ndt.)», disse Salinger. «Forse avete fatto parte perfino del medesimo circolo. A Harvard, può essere?».
Joe e io, in effetti, avevamo fatto parte dello stesso circolo a Harvard.
A quel punto, però Salinger aveva iniziato a parlare d´altro. Non afferrai immediatamente l´argomento. Il buddismo, i suoi studi su quella religione, il suo desiderio di approfondirli. Disse: «Mi sorprenderebbe che qualcuno di voi si ritenesse buddista».
Parlò della disciplina della meditazione, di ciò che è possibile perseguire praticandola, di un libro che lo aveva aiutato ad apprezzarne i benefici. Di «livelli». O forse parlò di «stadi di illuminazione». Parlava sempre più veloce a mano a mano che andava avanti. Forse si trattava di semplice impazienza per la nostra ignoranza. Non afferravo bene tutto quello che diceva.
Disse qualcosa sul livello di Siddharta da lui raggiunto. «Direi che voi due» e indicò prima Joe poi me, «vi trovate al...» e citò un livello basso. Poi disse che Jill si trovava a un livello più alto.
Qualche lieve suono o forse un impercettibile movimento fatto da Jill mi fece rivolgere lo sguardo verso di lei. Aveva il viso lucido di lacrime. Non si era mossa affatto, non aveva emesso suono alcuno, ma quando alzai gli occhi, sia Joe sia Salinger stavano fissando in silenzio Jill.
Joe si alzò in piedi. Si chinò verso Jill, le disse qualcosa senza ottenerne risposta, poi annunciò ad alta voce che dovevamo andare.
«Sì» dissi, alzandomi in piedi a mia volta, «dobbiamo davvero andare».
Joe ed io andammo a prendere i nostri cappotti e quello di Jill, mentre lei e Salinger rimasero in piedi in silenzio. Mentre ci dirigevamo alla porta, Salinger si riscosse e ad alta voce disse: «No, no. Per piacere non andate! Rimanete, per favore, prendiamo un altro drink. Non andate via adesso». E scuoteva la testa.
«Dobbiamo proprio andare» dissi. «Mi dispiace». A me dispiaceva, dispiaceva veramente.
Non capivo esattamente per quale motivo Jill fosse crollata, ma era inimmaginabile pensare di poterci trattenere.
Restammo imbarazzati sul marciapiedi, in attesa di un taxi. Ne arrivò subito uno, e Salinger ci chiese ancora una volta di cambiare idea. «Tornate dentro, per favore. Prendete un altro drink».
Noi tre entrammo nel taxi. Joe diede al tassista il mio indirizzo e quando l´auto si mise in moto, Salinger iniziò a camminare e poi a correre al nostro fianco, continuando a chiederci di tornare indietro. Colpì il taxi - con un pugno, presumo - e l´autista frenò. Joe disse: «Prosegua!». Salinger guardò dal finestrino accanto a me. «Fermatevi. Per favore, tornate indietro!». A quel punto stava proprio strillando, nella strada silenziosa.
Il taxi si rimise in moto e superò l´incrocio. Joe disse con rabbia: «È completamente pazzo!».
Non ricordo di aver scambiato altre parole nel breve tragitto necessario a raggiungere casa mia. Jill e Joe rimasero a bordo e andarono a casa loro.
Nei giorni e nelle settimane seguenti rimuginai a lungo su quello che era andato storto quella sera. Volevo capire, e non capivo. Doveva essere accaduto, detto o fatto, qualcosa di decisivo. Ma che cosa?
Trascorsi parecchi anni da quel party, appresi da Jill che a metà serata lei era salita in camera di nostra madre per andare in bagno e quando ne era uscita aveva trovato Salinger sdraiato sui cappotti degli ospiti, sistemati sul letto. Le aveva proposto di andare via insieme a lui, lasciare quella festa, subito, in quel preciso istante. Avrebbe guidato fino a Cornish quella stessa notte. Si sarebbero lasciati alle spalle le rispettive vite e ne avrebbero iniziata un´altra insieme.
Le chiesi perché avesse rifiutato.
«Quella sera mi ero presa una cotta per Jerry», ammise. Poi aggiunse: «Però mi domandai che cosa ci saremmo detti, una volta arrivati ad Hartford». Hartford si trova appena a metà strada verso Cornish.
Mi sono chiesto spesso se Jill abbia mai pensato di contattare Salinger. Una volta gliel´ho domandato, ma lei ha negato categoricamente. Da allora non ne abbiamo quasi più parlato.
Traduzione Anna Bissanti
(Ha collaborato Gabriele Pantucci)
© 2011 The Paris Review