Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  aprile 24 Domenica calendario

SCOLA: «A 80 ANNI SONO STANCO DEL CINEMA»


Ettore Scola, come mai da quattro anni ha smesso di girare film?

«Tempo fa Ferdinando Adornato aveva detto in Parlamento che Berlusconi era equanime perché Medusa, la sua società, stava producendo un film del “comunista” Ettore Scola. Il film era già scritto e Depardieu aveva già firmato il contratto. Io però ho comunicato ad Adornato che volevo recidere il contratto. Alla Medusa sono stati garbati: mi hanno detto che capivano la mia decisione e rinviavano il contratto».

Cosa è accaduto in seguito?

«Non credo che a 80 anni, perché li compio il 10 maggio prossimo, si possa parlare di diserzione, caso mai di disaffezione. Il cinema è un lavoro di gruppo e di contesto, e io non me la sentivo più in quel contesto. Poi il cinema va fatto dai giovani. E’ un’esperienza totalizzante, ha tempi lunghissimi, io sono lento e tendo a pensare, riscrivere e ripensare. Per certe sceneggiature ci ho impiegato tre anni, oggi il cinema invece ha premura».

Che impressione le fa un compleanno così importante?

«Potrebbe essere memorabile se, come annunciano da parecchio tempo, il 10 maggio a Roma ci sarà il terremoto».

E lei come lo festeggerà?

«In molti mi hanno inviato a Rio De Janeiro, a San Paolo ma anche in Argentina dove ci saranno varie proiezioni dei miei film, ma non me la sento di andare. Andrò forse a Parigi, una città a cui devo moltissimo».

E Roma come si sta preparando all’avvenimento?

«Mi consegneranno un David di Donatello e sarò presente in alcune manifestazioni di quartiere, poi mi sposterò anche a Milano».

Quale è stato il suo ultimo film?

«“Gente di Roma” del 2005-2006, un misto tra film e documentario che forse non hanno visto in molti e che risponde all’insegnamento dei miei maestri Zavattini e Amidei. Un piccolo film girato nei quartieri di Roma con il focus su varie etnie e diverse mentalità. Nella Capitale non si sentono né estranei né diversi, eppure vengono ignorati».

A quale dei suoi film è particolarmente affezionato?

«“C’eravamo tanto amati”, “La famiglia”, “Una giornata particolare”, “Ballando ballando”: un malloppo compatto come se avessi fatto un solo film, in realtà temi a me cari costantemente cambiati, perfezionati e ambientati in epoche diverse».

Le mancano Gassman, Mastroianni, Sordi, Manfredi, Tognazzi?

«Sì, perché il mio cinema, “la commedia all’italiana”, non era un cinema d’autore, ma di autori la cui paternità non era soltanto del regista o degli sceneggiatori. Anche gli attori erano autori, anche se rispettavano il copione. Qualunque cosa quei cinque attori interpretavano diventava loro: li conoscevo bene ancor prima di diventare regista, eravamo amici e mi piaceva usarli in modo diverso».

In che senso?

«Mi piaceva far vedere un infallibile seduttore come Marcello Mastroianni come un gentile omosessuale in “Una giornata particolare”, affiancandolo ad un’esplosione di carne e sesso come la Loren che faceva la parte di una piccola donna malmaritata, senza nessuna fantasia. Un monumento di se stesso come Gassman, che intimidiva colleghi e registi, lo utilizzai come professore riservato che non sceglie nulla perché ha il dono del dubbio».

E Sordi?

«Era più se stesso di tutti gli altri e non era facile cambiarlo. Ho scritto 20 film tra cui “Un americano a Roma” da lui magistralmente interpretato, per Gassman invece ho scritto “Il sorpasso”. Oggi non ci sono più i Rossellini e i Visconti e in letteratura nemmeno Verga o Manzoni. Forse Elkann non esisterebbe come scrittore se non ci fosse stato Italo Svevo».

Il cinema di oggi è molto diverso?

«Manca l’attaccamento al proprio Paese. E’ difficile dire ai giovani “amate l’Italia”. Se pensi sempre ad andare altrove potrai trovare una collocazione, ma il tuo lavoro sarà meno ricco e necessario».

I nostri registi continuano a raccontare l’Italia?

«Sì, sulla scia del neorealismo. “Il divo” ha avuto grande successo anche all’estero dove magari non sanno chi sia Andreotti, ma hanno capito la forza della metafora sul potere della pellicola di Sorrentino. Un film del genere poteva essere fatto solo da un italiano e in Italia: ecco perché non sono pessimista sul nostro cinema».

Servillo è un grande attore alla pari degli altri?

«È meno duttile non per colpa sua, ma di un certo cinema che vuole ripetersi. La sua è una maschera forte alla Gian Maria Volonté, ma in ogni film è identico a se stesso. Una volta negli attori e nei produttori c’era più coraggio perché si osava e si cambiava di più».

E Moretti?

«E’ uno degli ultimi autori completi, forse troppo completo e quindi autosufficiente, dovendo poi interpretare i suoi film ha dovuto dedicarsi a personaggi in linea con la sua età. Prima se non c’era Sordi si faceva una cosa diversa, magari con Mastroianni o con Gassman. Moretti è invece interprete di una sola generazione che è quella dei cinquantenni di oggi, e non copre invece quelli che hanno vent’anni o sessanta».

Come mai ha sempre avuto un rapporto privilegiato con la Francia e certi attori francesi?» «Avevo un nonno che prima di diventare cieco era stato un grandissimo lettore ed era appassionato della Rivoluzione francese e di Napoleone. A 7-8 anni gli leggevo i classici di Lamartine e Montesquieu di cui io non capivo tutto, quindi ogni tanto mi faceva piacere prendere una boccata d’aria con Dumas o con Daudet. “Capitan Fracassa” l’ho letto e riletto per poi farne un film con Troisi, Emmanuelle Beart, Ornella Muti, Vincent Perez. Ma lavorare con Noiret o con Gassman per me non faceva nessuna differenza».

Non ha nostalgia del suo lavoro?

«Non mi riconoscerei in quelle che sono le logiche cinematografiche di oggi».

C’è qualcuno che le manca in modo particolare?

«Scarpelli, Sergio Amidei e il gruppo dei grandi attori di cui si è detto. Ho nostalgia delle fatiche e dei risvegli all’alba, io sono meridionale e pigro anche se vivo a Roma da quando avevo cinque anni. Sto imparando a perdere tempo. Magari ti sottrai a cose ufficiali e fai cose inutili. Ad esempio andare in una cittadina dove in venti manifestano perché l’unico cinema non chiuda per diventare supermercato: questa è una cosa che mi sento di fare».

Ha l’impressione che la sua sia una vita riuscita?

«Sì, ma con qualche amarezza perché forse non immaginavo la vecchiaia in un Paese così scempiato e allo stremo. Ma ci sono anche motivi di ottimismo e di fiducia: ad esempio per la presenza di giovani che da qualche tempo stanno dando iniezioni di vitalità e motivo di resistere anche ai vecchi».