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 2011  aprile 27 Mercoledì calendario

ASSALTO ALLA NAVE DEL COPYRIGHT

A vederlo di perso­na, Adrian Johns non ha davvero l’aria del pirata. Sorriso ti­mido, occhiali leggeri e abbigliamento formale ma non troppo, come si addice a un accademico.
Di professione infatti non fa il corsaro, ma lo storico, con cattedra alla Univer­sity of Chicago. Mai fidar­si delle apparenze, però. Il mite Johns è uno dei maggiori esperti mondiali in materia di diritto d’au­tore.
Ha scritto un saggio, Pirateria (Bollati Borin­ghieri, pagine 720, euro 39,00), che è la prima, im­ponente ricostruzione delle vicissitudini del copyright dai tempi di Gutenberg a oggi. Come se non bastasse, il profes­sore è anche molto mode­sto. Se per caso il discorso scivola su qualche esem­pio nostrano, come la controversia legale che nell’Ottocento contrap­pose Alessandro Manzoni all’editore Le Monnier per l’edizione ’pirata’ dei Promessi sposi, subito Johns si rammarica, si proclama incompetente, sostiene che nel libro mancano tante informa­zioni…
Beh, non esageriamo: la sua è una trattazione for­midabile. E poi l’atten­zione al mondo anglosas­sone è giustificata dal fat­to che il copyright nasce in quel contesto, no?
«Sì, ma il precedente ita­liano è molto importante per il costituirsi dell’idea. In origine la proprietà in­tellettuale era tutelata o attraverso il brevetto (la ’patente’ rilasciata dal­l’autorità) o attraverso l’i­scrizione nel registro in cui le varie gilde artigiane conservavano memoria di titoli, opere e invenzioni. Una pratica, quest’ultima, maturata nel sistema me­dievale delle corporazio­ni, che rappresenta una caratteristica importante della storia d’Italia».
La lotta alla pirateria, però, parte dalla Gran Bretagna. Lei stesso ricor­da il caso di John Fisher, il ’re’ degli editori non au­torizzati, che nel 1904 prese la parola a Londra, in Parlamento, sostenen­do argomenti che oggi ci suonano familiari…
«Una certa somiglianza c’è, non si può negare, ma la situazione di allora era molto differente dalla no­stra. Fisher e i suoi colle­ghi riproducevano spartiti musicali, dichiarandosi pronti a riconoscere i di­ritti dei compositori, ma non quelli degli editori. E­ra un credo libertario che molti odierni pirati del Web sarebbero disposti a sottoscrivere, tuttavia non comportava necessaria­mente il superamento dell’intermediazione tra autore e pubblico, così come è attuata ora dalle licenze Creative Com­mons. Al contrario, Fisher pensava a un’editoria di­stribuita su più livelli, co­me poi è accaduto con i cd: i prodotti costosi, più completi e raffinati, con­vivono con versioni per tutte le tasche, in cui si trova solo l’essenziale. Oggi, inoltre, la copia di­gitale è in tutto identica all’originale e può essere realizzata immediata­mente, a costo zero. Da qui l’ansia e l’aggressività delle major, che stanno cercando di irrigidire la protezione del copyright su scala internazionale».
Questa severità incondi­zionata è un’arma effica­ce?
«La storia ci insegna a dif­fidare delle posizioni troppo inflessibili. Pensia­mo agli anni Ottanta, quando negli Stati Uniti esplose il cosiddetto caso Betamax. I primi videore­gistratori, prodotti dalla giapponese Sony, erano accusati di minare alla ra­dice l’industria americana dell’intrattenimento, in quanto consentivano, tra l’altro, di eliminare i mes­saggi pubblicitari dalle trasmissioni televisive. La tecnologia, alla fine, fu as­solta con formula piena, perché non era stata con­cepita per eliminare gli spot, ma per tutta una se­rie di usi diversi, impossi­bili da vietare. Già in quella occasione, la reto­rica del copyright soste­neva che questa forma di pirateria domestica a­vrebbe messo a repenta­glio il lavoro di attori, re­gisti e sceneggiatori. In realtà a rischiare di più non sono mai gli artisti, ma l’industria che distri­buisce le loro opere».
Vede qualche alternativa al pugno di ferro?
«Un concetto interessan­te, che si sviluppa paralle­lamente al fissarsi del copyright, è quello del ’leale utilizzo’: la copia realizzata non per fini di lucro, ma per studio o consultazione. Si tratta di un istituto già previsto, al­meno in parte, dalla legi­slazione americana e che, adeguata­mente svi­luppato, po­trebbe rap­presentare un’interes­sante solu­zione dello scontro frontale tra il rapido diffondersi della pirateria e il conse­guente rafforzamento dei monopoli».
Fin dai tempi di Shake­speare, i prodotti più co­piati sono sempre stati quelli di maggior succes­so. Significa che il trionfo dell’ebook coinciderà con una nuova era della pirateria, simile a quella che coinvolse i file musi­cali all’epoca di Napster?
«Suona paradossale, ma sì, è così: si riproduce ille­galmente soltanto l’opera che gode già di ampia re­putazione e che costitui­sce quindi un mercato si­curo. In questo senso, il moltiplicarsi di libri elet­tronici piratati sarebbe un indicatore significativo dell’affermarsi del nuovo standard. Le premesse, del resto, non mancano. Best seller come Harry Potter sono circolati an­che sotto forma di ebook non autorizzati. Dove c’è domanda, i pirati provve­dono a soddisfarla».
Visto che parliamo di let­teratura, mi tolga una cu­riosità: come mai Cer­vantes, Defoe, Bruce Ster­ling e molti altri scrittori sono tanto attratti dal te­ma della pirateria intel­lettuale?
«Forse perché nessuna o­pera è mai del tutto nuo­va, ma si inserisce in un reticolo infinito di debiti e citazioni. Lo stesso Shakespeare prendeva a prestito le sue trame da altri autori, no? E il copy­right di molte fiabe tradi­zionali è stato successiva­mente acquisito da cor­poration come la Disney. Ma è un discorso molto delicato, direi quasi rivo­luzionario. Affrontarlo ri­schia di mettere in di­scussione l’intero model­lo su cui si fonda il con­cetto di proprietà intellet­tuale. Se questo presup­posto venisse meno, con quali giustificazioni po­tremmo dare la caccia ai pirati?».