Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  aprile 26 Martedì calendario

WOJTYLA, "ERA UN MALATO OBBEDIENTE, MA NELL´EMERGENZA DECIDEVA LUI"

Dottor Buzzonetti, durante i quasi 27 anni trascorsi accanto a Karol Wojtyla come suo medico personale ha mai immaginato che sarebbe diventato beato?
«Ho sempre visto in papa Wojtyla una intima unione con Dio fatta di preghiera e contemplazione costante. Aveva una fede d´acciaio, un´anima plasmata dal romanticismo polacco e dal misticismo slavo, una evangelica capacità di amare, condividere, perdonare. Non mi sono mai posto ipotesi di processi canonici, perché non mi servivano. Ha sempre vissuto intensamente sia le gioie, soprattutto interiori del suo cammino spirituale, sia le sofferenze dello spirito e del corpo, culminati nell´attentato del 1981 e nei ricoveri ospedalieri, fino ai giorni ultimi dell´esistenza e della morte, in Vaticano. Accettò con grande dignità e coraggio tutte le cure con cui i medici, pur senza accanimento, cercarono di alleviare le ultime penose tappe della sua vita».
Renato Buzzonetti - ora archiatra pontificio emerito - è stato medico di Paolo VI quale collaboratore del professor Mario Fontana, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Dei tre, però, quello che più lo ha "segnato" è stato Wojtyla, confida l´archiatra a pochi giorni della beatificazione.
Perchè Giovanni Paolo II scelse proprio lei come medico personale?
«Non l´ho mai saputo. Lo vidi la prima volta dopo l´elezione del 16 ottobre 1978. Io ero il medico del conclave, come lo sono stato ai conclavi di Giovanni Paolo I e Benedetto XVI. Quando uscì dalla Cappella Sistina, il suo nuovo zucchetto bianco sembrava galleggiare tra quelli rossi dei cardinali. Mi pregò di informarmi sulla salute di un suo amico, monsignor Andrzej Maria Deskur, ricoverato al Gemelli. Il 29 dicembre 1978 mi chiamò al suo servizio, che si aggiunse al mio incarico all´ospedale San Camillo».
Come si svolse la prima visita medica?
«Un incontro indimenticabile. Fui ricevuto nel suo appartamento dopo un preavviso di un paio d´ore. Mi colpì l´esattezza con cui raccontò la sua anamnesi, la storia personale delle sue passate malattie che completò, con esattezza, col numero delle ore dedicate alle attività sportive, l´escursionismo in montagna, lo sci, la canoa e il nuoto. Da giovane aveva giocato anche al calcio».
Era un paziente difficile?
«Era un paziente obbediente, disponibile e pronto all´ascolto. Sapeva valutare la reale portata dei consigli. Era curioso, ma senza eccessi; preciso nella descrizione dei disturbi, ma senza drammatizzazioni. Durante la visita medica, a volte dovevo sospendere i controlli, perché chiudeva gli occhi e si immergeva in un silenzio profondo, che lo isolava da chi lo circondava, compreso me che sostavo accanto al suo letto con il fonendoscopio in mano. È stato un malato esemplare, sempre pronto ad assumere le decisioni nei casi di emergenza, aderendo alle indicazioni del medico, talvolta anche contro il parere del suo entourage, notoriamente più prudente».
Può fare qualche esempio?
«Nel 1992 non ebbe esitazioni a sottoporsi ad un intervento chirurgico dopo un esame radiologico - rinviato da tempo per i suoi impegni - con cui gli fu diagnosticata una neoplasia del sigma. Come pure quando si sottopose all´intervento di tracheotomia e al posizionamento di una cannula tracheale, il pomeriggio del 24 febbraio 2005, all´inizio del secondo ricovero al Gemelli, circa un mese e mezzo prima della morte. Col professor Rodolfo Proietti gli spiegai che era una operazione necessaria per evitargli ulteriori crisi respiratorie, ma che sarebbero state compromesse la fonazione, la possibilità di parlare e di cantare. In un primo momento non comprese e ingenuamente chiese di poter spostare l´intervento in estate. Ma quando gli feci capire che non si poteva perdere altro tempo, accettò e mi sentii quasi un persecutore che si apprestava ad infierire sul corpo di un uomo gravemente sofferente, con la deglutizione già stentata, e che a letto per muoversi aveva bisogno di essere aiutato. Dopo l´intervento, quando si rese conto di non riconoscere più la sua voce, scrisse in polacco su un foglio ‘Cosa mi hanno fatto? Ma…Totus Tuus´. Fu uno snodo esistenziale, che dallo sgomento lo spingeva al totale affidamento a Maria, come già aveva annunciato sin dal suo motto episcopale».
E poi Wojtyla fu riportato in Vaticano, dove morì alle 21,37 del 2 aprile 2005.
«Sì, nel suo appartamento fu assistito da 2 medici rianimatori, un infermiere e dagli specialisti chiamati a seguire il decorso della malattia. Dopo alcuni giorni senza ulteriori peggioramenti, la malattia riprese il suo corso e fu allora che il Papa fece sapere che non voleva essere più portato in ospedale, pur accettando le cure previste. Fu assistito giorno e notte dall´equipe medica vaticana fino alla conclusione naturale della sua esistenza, senza nessuna accanimento terapeutico. E anche in questa circostanza fu un paziente esemplare, mettendo in luce, attraverso la malattia, la grandezza delle sue doti umane sempre più impregnate dalla potenza delle sue virtù cristiane eroicamente vissute, che hanno permesso alla Chiesa di proclamarlo beato».
Il positivo esito delle cure dopo l´attentato del 1981 è stato un caso o un miracolo?
«Nella vita ci sono elementi definibili umanamente casuali, ma che, guardati da una prospettiva cristiana, sono almeno provvidenziali. Sull´attentato di elementi provvidenziali ce ne sono stati diversi. Ad esempio, quel giorno non ero in piazza San Pietro, ma alla Direzione dei servizi sanitari vaticani. Per caso chiesi al dottor Giulio Cesare Nicotra di recarsi in piazza per sorvegliare la situazione. Ebbene, fu proprio Nicotra che mi informò, via telefono, dell´attentato. Mi precipitai giù dalla Direzione sanitaria e quando arrivai al piano terra incrociai la jeep bianca col Papa ferito. Intervenni subito, feci deporre il ferito per terra, gli parlai, lo visitai sommariamente, mi resi conto della gravità della situazione e subito lo feci trasportare al Gemelli con una ambulanza di rianimazione. Qui - altro caso provvidenziale - c´era una camera operatoria già attivata per un altro paziente, ma, trattandosi di un intervento non urgente, come avviene in simili frangenti, fu fatto posto al Santo Padre, 17 minuti dopo l´attentato. E sappiamo tutti come è andata».
Cosa le manca di Wojtyla?
«Forse è strano, ma non mi manca nulla perchè l´esperienza di medico accanto a lui è finita il 2 aprile 2005 e quella di suo modesto discepolo ancor oggi riempie la mia vita. Mi ha dato tanto, come ha dato tanto alla Chiesa e al mondo, aprendo nuovi orizzonti, a cui ora Benedetto XVI guarda con rinnovato slancio pastorale. Tra i Beati sono certo di avere un amico fidato".