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 2011  aprile 24 Domenica calendario

E IL «CECCHINO DEI CIELI» ORA DIVIDE L’AMERICA —

Il Predator è il cecchino dei cieli. Un sistema controverso. Apprezzato o odiato. La decisione americana di impiegare i droni in Libia ha animato il dibattito. Per un critico d’eccellenza come David Ignatius del Washington Post è una cattiva idea. Perché rappresenta il simbolo dell’arroganza americana. Un’arma che non vedi ma che c’è e uccide.
A suo giudizio il drone potrebbe dare la caccia allo stesso Gheddafi o ai suoi figli. L’omicidio mirato contestato sul piano legale. Ignatius aggiunge che gli Usa si sono innamorati così tanto del Predator che lo hanno scambiato per la soluzione dei problemi. Invece, insiste, è solo uno strumento.
Non tutti la pensano come Ignatius. A cominciare da Barack Obama. Sotto la sua presidenza i raid affidati a questi velivoli sono triplicati. Per La Cia sono «l’unico giocattolo che abbiamo in città» . Armi che bene si integrano con le incursioni di forze speciali in una visione di «guerra leggera» , con pochi scarponi sul terreno e tanta tecnologia. Molti ritengono che i droni abbiano portato una svolta nei conflitti dove l’avversario non è un vero esercito e cerca di operare in zone abitate. Uno scenario che si avvicina al teatro libico e in particolare alla regione di Misurata.
Lento ma preciso il Predator può rimanere per 24 ore in pattuglia. Una «persistenza» che rappresenta una minaccia continua per gli avversari. Non lo sentono, ma temono che da un momento all’altro possa sparare. Infatti, lo chiamano, in gergo, Terminator in quanto ha eliminato dozzine di terroristi tra Pakistan e Afghanistan. Per contro soffre le condizioni meteo difficili, a cominciare dalle tempeste di sabbia.
Il Predator è una macchina affidata ai «pendolari della guerra» . Guidato via satellite, permette ai piloti di essere di mattina al fronte e alla sera con la famiglia a casa. Le postazioni di controllo dell’aereo senza equipaggio sono a migliaia di chilometri di distanza. Una di queste l’abbiamo visitata. È la Creech Air Force Base, a mezz’ora dai casinò di Las Vegas, Nevada. Pilota e addetto alle armi siedono in una stanzetta piena di schermi e sono collegati via satellite al Predator che decolla da una base avanzata. In questo caso in Italia, a Sigonella, aeroporto che già ospita i Global Hawk da ricognizione. Gli equipaggi si alternano ogni 8 ore, spesso affiancati da un uomo dell’intelligence che coordina gli attacchi. Le telecamere seguono una persona per strada, «filano» un veicolo sospetto. Se il comando ritiene che siano ostili, l’addetto alle armi lancia un missile.
I partigiani del «cecchino» affermano che i droni hanno ridotto i danni collaterali: il numero dei civili uccisi durante i blitz in Pakistan sarebbe sceso dal 25 per cento al 5 per cento. Ma recenti episodi, anche nelle ultime ore, hanno mostrato come possano essere compiuti errori tragici con decine di vittime. Incidenti che hanno spinto i pachistani a mettere alla porta gli 007 americani che gestiscono i piani d’attacco.
L’impiego dei Predator — spiega il pilota David Cenciotti— è un aiuto importante, farà risparmiare 4-5 missioni dei caccia al giorno, diventerà un’insidia per i miliziani e, una volta che ha usato i razzi, può rimanere per guidare altri attacchi. Ma ne servirebbero molti di più. E chi vede nero spiega che il problema non sono certo i droni ma lo stallo in cui è finita la missione.
Guido Olimpio