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 2011  aprile 23 Sabato calendario

L’ULTIMO GATTOPARDO - L’

ambiguità, l’incertezza, l’inadeguatezza e forse la paura di perdere il potere erano innervati sul volto di tutti i convenuti a Damasco, attorno ad un tavolo ovale, in una stanza nobile del regime alauita. È accaduto giovedì, quando il presidente siriano Bashar el Assad ha annunciato l’abolizione dello stato di emergenza, in vigore dal 1963. Il tono doveva essere adeguato all’importanza dell’avvenimento. Tuttavia non c’era solennità, perché in sostanza l’abolizione degli articoli che limitavano pesantemente la libertà di tutti veniva sostituita da una ragnatela di future norme parallele, che solo in apparenza sembrano meno aspre della legislazione precedente. Il regime ha infatti presentato come «svolta storica» un’operazione di maquillage che sa tanto del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, e cioè cambiare poco per non cambiare niente. O quasi. Il regime non ha avuto neppure l’accortezza o la scaltrezza di adeguarsi, almeno nell’apparenza e soprattutto nell’immediato alla «grande apertura» . L’arresto di alcuni oppositori, seguito all’annuncio dell’abolizione dello stato di emergenza, ha dimostrato ai ribelli (ormai centinaia di migliaia in tutto il Paese) quel che troppi già sospettavano. Che nulla, insomma, era mutato, che i cambiamenti erano comunque «troppo poco» , e che quindi il «venerdì della rabbia» sarebbe stato un altro venerdì di sangue. Anzi. Più sanguinoso degli altri. Quella di ieri è stata davvero la giornata più terribile dall’inizio delle proteste contro il regime. Polizia e forze di sicurezza, soprattutto agenti in borghese, hanno sparato ad altezza uomo sulla folla ed è difficile, a tarda sera, chiudere un bilancio che già si presenta agghiacciante. Ora, pensare che il vertice del Paese possa decidere di affidarsi alla più dura repressione, riproponendo nel nuovo millennio quanto Hafez el Assad, padre di Bashar, fece ad Hama nel 1982 (dai 15.000 ai 20.000 morti), è davvero impossibile. Allora non c’erano telefonini, videofonini, televisioni satellitari e social network che oggi possono violentare qualsiasi censura. È vero che in Siria, in questi giorni, i giornalisti sono assai pochi, ma sullo strapotere delle tecnologie della comunicazione anche un potere dittatoriale, che punta sulle operazioni segrete, può fare ben poco. Quel che più sorprende non è tanto la brutalità del regime quanto il ruolo del giovane presidente Bashar el Assad, delfino controvoglia soltanto perché era morto l’erede «naturale» , cioè il fratello maggiore Basel. Bashar si era presentato portando in dote una volontà riformatrice. Certo, cambiare la Siria dalle fondamenta era impresa davvero titanica. Però dalle obiettive difficoltà a diventare ostaggio delle logiche dell’asfissiante potere dittatoriale di una minoranza ce ne corre. È chiaro che se cadesse il laico regime di Damasco ci sarebbe da tremare. Non soltanto per la voglia di vendetta degli estremisti della maggioranza sunnita, che non dimenticano Hama. Ma anche in politica estera vi sarebbero gravi ricadute che coinvolgerebbero gli alleati della Siria: Iran, Hezbollah e Hamas. Israele, dopo aver perso l’egiziano Mubarak, rischierebbe di perdere un altro «potenziale» partner. Bashar el Assad, al di là della propaganda, ha sempre detto d’essere pronto a riaprire la trattativa di pace con Gerusalemme.
Antonio Ferrari