Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  aprile 23 Sabato calendario

Nel mio articolo di lunedì avevo sollevato un interrogativo: come mai il Sud cresce più del Nord, nonostante tutti i fattori frenanti che denunciamo da vari decenni? Se è vero che nel Sud funziona peggio la giustizia civile, ci sono meno infrastrutture, i servizi sono scadenti, scarseggiano gli investimenti stranieri, la qualità dell’istruzione è bassa, la criminalità organizzata inquina l’economia, perché nei dodici anni pre-crisi (dal 1995 al 2007) il prodotto interno lordo del Sud è cresciuto praticamente come al Nord, e il suo Pil pro capite è cresciuto addirittura di più? A queste domande provavo a rispondere con una piccola provocazione: non sarà che il Sud cresce più del Nord grazie a una pressione fiscale effettiva molto più bassa? E se il segreto della crescita differenziale del Sud fosse semplicemente l’autoriduzione delle tasse, come del resto la teoria economica prevede? Insomma, per essere ancora più politicamente scorretto: mentre i leghisti cianciano da 20 anni di secessione fiscale, il Mezzogiorno la pratica da decenni

Nel mio articolo di lunedì avevo sollevato un interrogativo: come mai il Sud cresce più del Nord, nonostante tutti i fattori frenanti che denunciamo da vari decenni? Se è vero che nel Sud funziona peggio la giustizia civile, ci sono meno infrastrutture, i servizi sono scadenti, scarseggiano gli investimenti stranieri, la qualità dell’istruzione è bassa, la criminalità organizzata inquina l’economia, perché nei dodici anni pre-crisi (dal 1995 al 2007) il prodotto interno lordo del Sud è cresciuto praticamente come al Nord, e il suo Pil pro capite è cresciuto addirittura di più? A queste domande provavo a rispondere con una piccola provocazione: non sarà che il Sud cresce più del Nord grazie a una pressione fiscale effettiva molto più bassa? E se il segreto della crescita differenziale del Sud fosse semplicemente l’autoriduzione delle tasse, come del resto la teoria economica prevede? Insomma, per essere ancora più politicamente scorretto: mentre i leghisti cianciano da 20 anni di secessione fiscale, il Mezzogiorno la pratica da decenni. Poiché alla mia provocazione hanno reagito in molti - a voce, per mail, sui giornali, alla radio - e poiché diversi interventi hanno sollevato obiezioni e osservazioni utili, ritorno volentieri sull’argomento, riprendendo almeno gli spunti più interessanti. Una prima obiezione suona così: il sorpasso del Sud rispetto al Nord è avvenuto solo dopo il 1995, ma non vi è alcuna evidenza che improvvisamente sia aumentata l’evasione fiscale nel Mezzogiorno. Verissimo, infatti la mia idea non è che il sorpasso sia avvenuto grazie a un aumento dell’evasione fiscale, bensì che l’improvviso crollo del tasso di crescita del Nord abbia per così dire messo a nudo il ruolo della minore pressione fiscale gravante sul Mezzogiorno. Nei 25 anni fra il 1971 e il 1996 il Nord cresceva così rapidamente rispetto al Sud da occultare l’handicap del Nord (o il vantaggio del Sud) in termini di pressione fiscale. Quel che è successo, a metà degli Anni 90, è che la fine delle svalutazioni della lira ha inferto al Nord un tale colpo da annullare tutti i vantaggi di cui godeva prima rispetto al Sud, rendendo improvvisamente visibile l’unico vero grande handicap delle regioni settentrionali, ossia la maggiore pressione fiscale di fatto (l’intensità dell’evasione al Nord è un terzo di quella del Sud). E anche se, come alcuni suggeriscono, ragioniamo in termini di Pil anziché di Pil pro capite, il problema resta: se la minore pressione fiscale del Sud non contasse nulla, dovremmo comunque osservare una maggiore crescita del Nord, visto che su tutti gli altri fattori il Nord gode di un vantaggio considerevole rispetto al Sud. In breve, e per concludere su questo punto, la mia tesi non è che il Sud si sia messo improvvisamente a correre, ma che il Nord si sia improvvisamente «seduto» quando - a metà degli Anni 90 - ha perso lo strumento delle svalutazioni competitive, che molto aiutavano il nostro export, e quindi la crescita complessiva dell’economia (vedi grafico). Fino al 1995 il Nord cresceva quasi al 3%, dopo cresce meno dell’1%. Qui però interviene un’altra obiezione. Secondo Marco Fortis il Nord, tutto sommato, se la sarebbe cavata abbastanza bene perché nel periodo da me considerato sarebbe cresciuto più o meno come la Germania. Anche questo è vero, ma vorrei ricordare due fatti. Per anni la Germania è stata considerata il «malato d’Europa» proprio perché cresceva poco, ossia meno di quasi tutti gli altri Paesi europei. Inoltre la Germania è uno dei pochi Paesi avanzati che, dopo la crisi, ha ripreso a crescere alla grande (+3,6% nel 2010). Sarà un caso che, fra i Paesi avanzati, la Germania sia quello che - fra il 2007 e il 2009 - ha ridotto di più le tasse sulle imprese? Un’altra osservazione interessante viene da Alberto Bisin. In un certo senso è l’esatto contrario dell’obiezione di Fortis: mentre per Fortis non è vero che il Nord vada così male, per Bisin non è vero che il Sud vada così bene. Quel che dovremmo chiederci, dunque, non è perché il Sud corre (più del Nord), ma perché corre così poco, «soprattutto rispetto al suo potenziale che è molto elevato proprio a causa della sua povertà relativa in Europa». Già, perché il Sud - pur correndo più del Nord - corre comunque così poco rispetto al suo potenziale? Qui le spiegazioni possibili sono molte, ma due mi paiono più plausibili delle altre. Una prima spiegazione è che la zavorra degli innumerevoli fattori di handicap è talmente pesante da rendere trascurabile il vantaggio fiscale di cui il Sud beneficia di fatto, grazie alla maggiore evasione. La seconda spiegazione, non necessariamente incompatibile con la prima, è che al Sud manchi il principale fattore di crescita delle economie povere: un mercato del lavoro con salari allineati alla produttività. Detto più brutalmente: le cosiddette economie emergenti corrono più in fretta delle economie mature non solo perché il punto di partenza è basso ma perché, finché il divario con le economie avanzate resta ampio, anche i salari e lo Stato sociale restano indietro rispetto a quelli delle società ricche. E’ triste riconoscerlo, ma sono anche i bassi salari e la flessibilità che spingono le economie emergenti. Resta un’ultima obiezione, che mi sono spesso fatto io stesso: ma se una bassa pressione fiscale è così importante per sostenere la crescita, perché alcuni Paesi nordici ad alta pressione fiscale, come la Svezia e la Finlandia, sono ciononostante riusciti a crescere a un ritmo notevole (intorno al 3%)? La risposta, sostenuta da una notevole evidenza empirica, è che il fattore decisivo non è la pressione fiscale complessiva, che può benissimo essere alta se esiste un generoso Stato sociale, bensì la pressione fiscale sui produttori, a partire dalla regina di tutte le tasse, ossia l’imposta societaria (Ires più Irap, nel caso dell’Italia). La Germania, ad esempio, ancora nel 2000 aveva l’imposta societaria al 52%, mentre la Finlandia l’aveva al 29% e la Svezia al 28%. E nel 2007 la Germania era ancora ferma al 38%, mentre negli ultimi tre anni è scesa a livelli scandinavi. Né si può dire che quelle riportate siano solo eccezioni o casi singoli. Se consideriamo l’insieme delle economie avanzate dell’Unione europea, è difficile non essere colpiti dal legame inverso fra crescita e imposta societaria (vedi grafico): i Paesi che sono cresciuti di più sono quelli con l’imposta societaria più bassa, quelli che sono cresciuti di meno sono quelli con l’imposta societaria più alta. Un risultato coerente con la teoria economica, ma stranamente un po’ snobbato nel dibattito sulla crescita. Conclusione. Urge una riflessione onesta, non ideologica, possibilmente sorretta da dati e analisi, sul nesso fra imposta societaria e crescita. La mia impressione è che quando ci chiediamo perché l’Italia non cresce più diamo troppa importanza agli innumerevoli fattori secondari e sottovalutiamo sistematicamente il fattore dominante, ossia la pressione fiscale sui produttori. Come sociologo, non ne sono troppo stupito. La politica ha tutto l’interesse a occultare il ruolo frenante delle tasse, perché non ha il coraggio di ridurle. Le cosiddette forze sociali, d’altro canto, hanno tutto l’interesse a concentrare l’attenzione sugli altri fattori che limitano la crescita, perché ogni singolo fattore di handicap reclama più risorse pubbliche per i soggetti che lo controllano o se ne fanno paladini. Il risultato è che la spesa non diminuisce, la pressione fiscale resta quella che è, il Paese - sia pure molto lentamente, per fortuna sprofonda nel sottosviluppo. "IL CONFRONTO" "Finite le svalutazioni della lira la differenza fra le due zone è stata messa a nudo" "PERCHÉ IL PAESE NON SI MUOVE" "Le analisi danno rilievo a fattori secondari. In realtà è decisivo l’eccesso di tributi" "NON CONTANO LE IMPOSTE PERSONALI" "In Scandinavia sono alte eppure l’economia è in salute perché le aziende pagano poco"