Maurizio Molinari, La Stampa 23/4/2011, 23 aprile 2011
Bashar Assad è vittima del suo successo e ora la Siria sta scivolando verso una sanguinosa guerra civile: così legge le notizie della rivolta Joshua Landis, direttore del Centro di Studi sul Medio Oriente dell’Università dell’Oklahoma, autore della newsletter «Syria Comment», che gli arabisti considerano una puntuale fonte di approfondimento su quanto avviene a Damasco
Bashar Assad è vittima del suo successo e ora la Siria sta scivolando verso una sanguinosa guerra civile: così legge le notizie della rivolta Joshua Landis, direttore del Centro di Studi sul Medio Oriente dell’Università dell’Oklahoma, autore della newsletter «Syria Comment», che gli arabisti considerano una puntuale fonte di approfondimento su quanto avviene a Damasco. Da dove nasce l’impennata di violenze in più città siriane? «Dal fatto che Bashar Assad aveva tracciato una linea sulla sabbia. Nel suo ultimo discorso ha fatto delle concessioni, lasciando però intendere però che erano le ultime. Ha messo in gioco il suo prestigio di leader. Per questo subito dopo ha iniziato a definire i manifestanti “terroristi” e “criminali”. Il problema sta nel fatto che le concessioni erano minime e così la gente ha continuano a manifestare. Tornare indietro per il regime era impossibile ed è scattata la repressione sanguinosa». Chi sono i manifestanti? «Per capirlo bisogna cominciare con la descrizione di chi non va in piazza a manifestare. A sostenere il regime sono le minoranze, non solo gli alawiti cui appartengono gli Assad, e i ricchi, ovvero i due gruppi che temono di perdere privilegi e potere da un cambiamento degli equilibri interni. Sul fronte opposto a riempire le piazze sono i giovani, i disoccupati e la classe media impoverita dalla crisi economica». Lo scontro dunque nasce dall’economia? «Quando andò al potere Bashar Assad promise apertura, sviluppo, crescita economica ma non libertà politica. Ha perseguito la realizzazione del modello cinese. Ma è una formula che funziona solo in presenza di una crescita del 9 o 10 per cento, come avviene a Pechino. Il modello cinese senza crescita forte innesca la rabbia dei poveri contro i ricchi e questo è ciò che sta avvenendo». Quanto pesa l’insoddisfazione dei sunniti contro gli alawiti? «È la molla che può portare a trasformare le attuali violenze in aperta guerra civile. C’è una similitudine con quanto è avvenuto in Iraq, perché a Baghdad la guerra civile scoppiò quando i sunniti si opposero alla conquista del potere da parte degli sciiti, mentre a Damasco sono gli alawiti a non accettare il passaggio del potere nelle mani dei sunniti, che sono la maggioranza della popolazione. Gli alawiti si batteranno fino alla fine, potrebbe scorrere molto sangue». C’è una via d’uscita? «L’unica possibile sarebbe una iniziativa coraggiosa da parte di Assad: formare una commissione per guidare le riforme puntando a far svolgere libere elezioni entro un anno al massimo. Ma non lo farà, perché il regime non è composto solo da lui e dai suoi stretti collaboratori bensì da migliaia di persone - alawiti e altre minoranze e le famiglie più ricche - che temono le libere elezioni perché sanno che farebbero loro perdere tutto. Anche se Assad cedesse, loro si batteranno»". Perché un regime apparentemente solido come quello siriano non è riuscito a mettere a tacere la rivolta? «Assad è vittima del suo successo. Quando il padre Hafez governava, in Siria non c’erano neanche le parabole per le tv satellitari. È stato lui che ha portato satelliti, Internet, cellulari e quei videotelefoni che i manifestanti stanno usando. Sono i videotelefoni che hanno messo sulla difensiva la polizia, perché gli agenti temono di essere fotografati e di finire il giorno dopo - come è avvenuto - sugli schermi di Al Jazeera. È stato il modernizzatore Assad a innescare tutto e ora non riesce a frenare il corso degli eventi». Il governo siriano afferma che i disordini sono fomentati dall’estero. Che cosa ne pensa? «Sono soprattutto gli attivisti egiziani a usare Internet e twitter per mandare messaggi ai giovani siriani. È un canale di informazione reale, consistente. Anche l’opposizione all’estero manda messaggi, ma con minore efficacia. Ciò che più conta però è l’impatto delle immagini di Al Jazeera, entrano in tutte le case facendo venir meno il timore del regime». Come legge le mosse dell’Iran di Ahmadinejad rispetto a quanto sta avvenendo al suo più stretto alleato? «Teheran è certamente preoccupata ma sa bene che non può far nulla per salvare l’alleato di Damasco. Non basta mandare qualche agente iraniano o fornire un sistema di sorveglianza dei computer per rimettere in piedi un governo alle prese con migliaia di dimostrati in più città. Agli iraniani non resta che prendere atto di quanto sta avvenendo».