Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 22/04/2011, 22 aprile 2011
L’OCCASIONE DI SCIOGLIERE ILGROVIGLIO
Il paradosso più eclatante s’è realizzato a tre anni dai primi interrogatori, cominciati nella primavera del 2008 e di fatto mai interrotti. Decine e decine di verbali, centinaia di manoscritti e dattiloscritti dall’incerta provenienza, originali e in fotocopia, consegnati ai magistrati di Palermo che— diceva Massimo Ciancimino — avevano finalmente deciso di andare a fondo sui rapporti tra mafia e pezzi delle istituzioni, sulla trattativa tra lo Stato e Cosa nostra prima, durante e dopo le stragi.
Li chiamava eroi, quei magistrati. Gli stessi che oggi l’hanno spedito dritto in galera, arrestato mentre viaggiava sotto scorta come gli capita da quando, in virtù delle sue rivelazioni e conseguenti ipotetiche minacce, lo Stato aveva deciso di proteggerlo. L’hanno mandato in carcere dopo aver mostrato di dargli molta fiducia, forse perfino troppa, spiegando che questo strano collaborante non-pentito era intrinsecamente poco credibile ma estrinsecamente attendibile; nel senso che, con le sue affermazioni e soprattutto coi suoi comportamenti, faceva sorgere molti dubbi, ma poi diverse cose che diceva sembravano riscontrate. O comunque non smentite. Finché la polizia scientifica non ha trovato la prova della truffa che, unita ad alcune sue dichiarazioni, s’è trasformata in calunnia. Prima ancora, altri magistrati aveva sollevato la stessa accusa, pur senza arrestarlo. Nel dicembre scorso i procuratori di Caltanissetta — non così celebrati da Ciancimino jr, ma impegnati a fare luce sui cosiddetti «mandanti occulti» delle bombe del 1992 — spiegarono che il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo aveva calunniato l’ex capo della polizia, oggi al vertice dei servizi segreti, Gianni De Gennaro. Prima identificandolo e poi (con uno spericolato volo pindarico) accostandolo al fantomatico «signor Franco o Carlo» , misterioso anello di congiunzione tra le cosche di Bernardo Provenzano e non meglio precisati referenti politici e degli apparati. Si sollevò il prevedibile polverone di polemiche, ma imperterrito il giovane (anche se ormai si avvicina al mezzo secolo d’età) Ciancimino continuò nella sua collaborazione con pubblici ministeri palermitani, decisi a scoperchiare la pentola di una trattativa di cui sono emerse tracce che prescindono dai verbali di Massimo Ciancimino. Adesso però anche loro si sono trovati davanti all’evidenza della calunnia. La «pistola fumante» è venuta fuori da due pezzi di carta consegnati agli inquirenti dallo stesso Ciancimino, a qualche mese di distanza l’uno dall’altro: il nome «De Gennaro» era stato estrapolato da un documento (dove peraltro, sbagliando il nome, ci si riferiva al magistrato Giuseppe Di Gennaro) e applicato sull’altro, accostandolo a un tale «Gross» col quale l’ex sindaco mafioso avrebbe indicato il «Franco o Carlo» che collegava mafia e istituzioni. «La cerchiatura e la scritta De Gennaro è stata fatta da mio padre davanti a me — aveva raccontato Ciancimino jr davanti ai pm— e mi disse che da questo elenco si era scordato di inserire il nome De Gennaro» . Era la lista di coloro che, secondo il vecchio politico corleonese, faceva parte del «quarto livello in rapporti con l’associazione mafiosa» . Una volta dimostrato che quel nome cerchiato, in realtà, proveniva da un diverso foglio in cui si parlava d’altro e di altri, la prova della bugia e della calunnia s’è fatta evidente. Ma dopo la scoperta l’indagine è solo all’inizio. Perché ora bisogna capire perché questo strano e ambiguo testimone, con una condanna sulle spalle per riciclaggio di un tesoro di provenienza illecita probabilmente scoperto solo in piccola parte, abbia deciso di accusare falsamente un funzionario dello Stato stimato e potente come il prefetto De Gennaro, già stretto e fidato collaboratore di Giovanni Falcone. L’ha deciso da solo oppure gliel’ha ordinato qualcuno? Ha manomesso lui quei pezzi di carta o è opera di altri? Si muove in proprio o su commissione? Ora che è finito in carcere, Massimo Ciancimino potrebbe sciogliere il mistero della sua collaborazione. Far capire se è autentica, come lui ha sempre provato a sostenere, anche nelle situazioni più imbarazzanti, o se invece è sempre stata fasulla. Oppure fasulla solo in parte, magari per volontà di qualche «volto coperto» . Perché dopo l’accusa di Caltanissetta il figlio di «don Vito» ha insistito ad accostare De Gennaro al «quarto livello» , anche collaborando a un libro appena uscito? E che cosa c’è dietro i dubbi insinuati sui magistrati che lo inquisirono nell’inchiesta sul tesoro di suo padre? Sciogliere il groviglio di doppiezze dell’uomo che tanto amava parlare in pubblico e in tv per riscattare — diceva — il nome del padre dato al figlio, sarà vitale per provare a salvare la credibilità delle inchieste e dei processi basati anche sulle sue propalazioni. L’indagine sulla trattativa, ma anche altri procedimenti. Ieri, dopo l’arresto, Massimo Ciancimino ha detto di essere rimasto solo. Se fosse vero, sarebbe un motivo in più per fare finalmente chiarezza. Se invece anche quella è una bugia, e dietro di lui c’è qualche «architetto» (termine usato da «don Vito» per indicare il regista delle stragi e delle trame politico mafiose), potrebbe aiutare a smascherarlo. Persa quest’ultima occasione, dovrà rassegnarsi ad abbandonare l’etichetta di super testimone per tenersi quella di depistatore e inquinatore, già toccata a suo padre.
Giovanni Bianconi