Francesca Caferri, il venerdì di Repubblica 22/4/2011, 22 aprile 2011
MIRACOLO QATAR, IL PAESE ARABO CHE NON SCOPPIERÀ
Sul lungomare di Do-ha una fila di biciclette è in attesa di qualcuno che le usi. Il Q-bike, su modello del Velib parigino, è stato inaugurato a febbraio dal principe ereditario in persona, ma in Qatar non ha un grande successo. La questione non è il prezzo – il Q-bike è gratuito – piuttosto le condizioni: le temperature superano i 30 gradi già in primavera e gli abiti – una lunga tunica, bianca per gli uomini e nera per le donne – non sono l’ideale per pedalare. «Una delle assurdità di questo Paese» sospira un immigrato che da anni lavora a Doha e che
vuole rimanere anonimo, «il governo vuole portare qui il meglio del mondo, ma non sempre si può».
Le biciclette inutilizzate sono solo una delle tante contraddizioni del Qatar. Nel momento in cui l’intero mondo arabo sembra trovarsi su un vulcano in eruzione, il piccolo emirato sta serenamente a guardare. In queste strade, delle rivendicazioni che infiammano la regione non c’è traccia, la «giornata della
rabbia» si è rivelata un completo fallimento, i (pochi) mugugni, più che da chi vuole le riforme, arrivano da chi vuole che esse si fermino: oggi chi sbarca a Doha, non fosse per clima e abiti, potrebbe pensare di trovarsi in Svizzera, non nel mezzo dell’area geografica più turbolenta del momento.
«Non abbiamo bisogno di nulla di quello per cui protestano negli altri Paesi» dice Amal Khalifa Al Abaidli, studentessa di Letteratura inglese all’Università del Qatar, «abbiamo lavoro, sussidi statali per studiare e comprare case. La repressione? Non esiste». Le parole di Amal, per quanto candide, raccontano cose non troppo diverse dalla realtà.
Grazie a gas e petrolio, il Qatar è una delle nazioni più ricche del mondo: per il 2010 il Prodotto interno lordo è stato stimato a 128 miliardi di dollari, in crescita del 19 per cento rispetto all’anno precedente. È destinato a salire ancora nel 2011, grazie all’aumento dei prezzi del petrolio. Il Pil pro capite dei qatarini – circa 250 mila – è fra i 70 e gli 80 mila dollari l’anno, uno dei più alti in assoluto. Da quando è salito al potere Hamad bin Khalifa al Thani, nel 1995, i sudditi non pagano tasse e hanno accesso gratuito a servizi come trasporti e sanità. Ricevono casa e lavoro dallo Stato e hanno diritto a borse di studio che coprono retta universitaria ed eventuale soggiorno all’estero.
Un immenso patrimonio personale, pari a oltre un miliardo di dollari, ha consentito all’emiro di assumere quel ruolo ambiguo che oggi è la vera forza del Qatar. La tv satellitare Al Jazeera è una creatura di Sua Altezza, che la finanzia al cento per cento e spesso la usa come braccio politico sulla scena internazionale. I dollari del Qatar servono a finanziare Hamas ma anche Al Udeid, la base militare americana più grande del mondo arabo. Doha è stata la prima capitale della regione a mettere a disposizione della Nato i suoi aerei in partenza per la Libia e la prima a siglare accordi economici con i ribelli di Bengasi, in barba alla fratellanza araba invocata da Gheddafi.
Tra contraddizioni e paradossi, l’azzardo più grande l’emiro Hamad ha scelto di tentarlo sul piano interno, affidando a una donna – la seconda moglie, Sceicca Mozah bint Nasser al Missned – la gestione delle due aree che considera più importanti per il futuro, cioè educazione e cultura: una rivoluzione, in una regione dove le donne sono spesso invisibili e incontrano ancora difficoltà enormi per studiare, lavorare, vivere. Dalla mente di questa donna bellissima e sofisticata – che indossa sempre copricapi eleganti, ma mai il velo – sono nati i progetti che puntano a rivoluzionare il Qatar: Educational City – un enorme campus dove hanno filiali le migliori università americane – e una serie di musei capolavoro, fra cui spicca quello di Arte Islamica dell’archistar Ieoh Ming Pei.
Un capitolo a parte, poi, è quello dei Mondiali di calcio, che l’emirato ospiterà nel 2022. Sarà la prima volta per un Paese arabo, e il Qatar – che si dice sia riuscito ad aggiudicarsi il torneo anche grazie ai regali con cui sarebbero letteralmente stati sommersi i membri del comitato selezionatore – non intende sfigurare, nonostante non abbia stadi, né metropolitane, e d’estate la temperatura superi i 50 gradi, non proprio ideale per rincorrere un pallone. Così a Doha sono già partiti i lavori, con progetti stupefacenti. Gli stadi saranno dotati di aria condizionata, che sarà diffusa ovunque, terreno di gioco compreso. Si studiano sistemi per fare ombra a tutte le strutture. Ancora, alcuni stadi saranno smontabili, per essere donati in Africa a campionati finiti. Nel frattempo, per non sfigurare sul campo da gioco, lo Sceicco Hamad ha licenziato il tecnico francese Bruno Metsu e affidato il compito di allenare la Nazionale (tutti stranieri con nazionalità acquisita) al serbo Milovan Rajevac, strappato all’Arabia Saudita.
Insomma, da qualunque punto lo si guardi, il Qatar oggi presenta un quadro a tratti paradossale: «Capisco che possiamo apparire anomali, soprattutto in questo momento» dice Khalid Al Saied, direttore di The Peninsula, il più importante quotidiano in lingua inglese, «ma qui il cambiamento è iniziato con l’avvento dello sceicco Hamad: riforme politiche, economiche, sociali. Per cosa dovremmo protestare?».
Se gli si chiede di individuare almeno un problema, il direttore ci pensa su un po’: «Andare nel futuro senza perdere il passato: il nostro problema è questo». Ma scavando un po’ si scopre che a Doha non tutto è perfetto: l’unico attivista per i diritti gay si è rifiutato di incontrarci e qualche settimana fa è stato arrestato un blogger, accusato di criticare eccessivamente le scelte dello Sceicco. Così ora Sultan al-Khalaifi è dietro le sbarre: non perché invocasse riforme, ma perché chiedeva all’emiro di fermarle.