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 2011  aprile 22 Venerdì calendario

«ODIO IL TENNIS MA NON HO SCELTA»

«APRO GLI OCCHI e non so dove sono e neppure chi sono. Non è una novità, ho passato metà della mia vita senza saperlo. Questa volta però mi sento più confuso del solito. Sono sdraiato sul pavimento accanto al letto. Ora ricordo, mi sono spostato nel mezzo della notte. Lo faccio sempre più spesso, è meglio per la mia schiena. Ho 36 anni, ma quando mi alzo ogni mattina è come se ne avessi 96». Inizia così l’autobiografia di Andre Agassi, ed è la notte prima del ritiro. Uno se lo immagina ricco, famoso e felice e se lo ritrova dolorante per terra in una suite del Four Seasons di New York, in attesa dell’iniezione di cortisone che gli permetterà di giocare l’ultimo Us Open. È il 2006 e questa è la storia del campione ribelle, la rockstar del tennis, quello con l’orecchino e la criniera decolorata, che non voleva giocare a Wimbledon per non abbandonare le magliette supercolorate in onore del bianco obbligatorio. Donne bellissime, guadagni da 31 milioni di dollari in premi e 150 di sponsor, l’unico ad aver vinto un Golden Slam (i quattro tornei del Grande Slam, l’oro olimpico e la coppa Davis) per poi finire nel vortice della mondanità, della droga, del gossip, della separazione da Brooke Shields, precipitare al numero 141 e poi rinascere: ancora vittorie nei tornei dello Slam, il matrimonio con Steffi Graf, due figli.

Se queste cose più o meno si sapevano, molte altre se ne scoprono leggendo Open (in uscita per Einaudi), l’autobiografia dalle rivelazioni sensazionali scritta dal giornalista americano J.R. Moehringer, Premio Pulitzer 2000, che deve aver preso un bel pacco di soldi per raccogliere ore e ore di registrazioni e poi «raccontare la vita del campione con gli occhi del Pulitzer» senza neppure pretendere la firma in copertina.

Sapientemente si mischiano veleni, bugie e mezze verità che hanno già scioccato i lettori di mezzo mondo. La più grossa è che Andre ammette di aver fatto uso di Crystal Meth, una specie di anfetamina e di aver mentito alla commissione dell’Atp dopo il test positivo dell’antidoping. «Avevo bevuto dalla borraccia di un altro», disse e ora invece chiede perdono. Ed è anche uno shock apprendere che dal 1990 indossava una specie di parrucchino che letteralmente si disintegra sotto la doccia la sera prima della finale degli Open di Francia, fino alla rapatura a zero nel 1994.

Ma soprattutto sorprende il dolore che ha accompagnato tutta la sua esistenza. Fisico e psicologico. «Io odio il tennis, eppure continuo a giocare perché non ho scelta. Per quanto desideri smettere non ci riesco. E questa contraddizione tra quello che vorrei fare e quel che faccio davvero sembra la cifra della mia vita». L’incubo inizia a due anni, quando il padre Mike gli mette la racchetta in mano. Ci aveva provato senza successo con gli altri figli. Non è certo il primo genitore pazzo dei circuiti Atp, ma Mike arriva a manomettere la macchina spara palline perché raggiunga i 200 chilometri all’ora. «Mio padre ha deciso che diventerò il numero uno del mondo, tutto quello che posso fare è annuire e obbedire». Poi ancora sofferenze all’accademia di Nick Bollettieri, «questo glorificato campo di prigionia». E la solitudine dell’ingresso in campo, che «è come un’isola dove non puoi avere contatti con nessuno».

Colpisce il racconto minuzioso di decine di partite, di cui Agassi ricorda con ossessione anche i minimi particolari: 22 i minuti sotto la doccia, 28 di riscaldamento, il colore della maglietta, i rituali maniacali, la preparazione della sacca, le borracce con l’acqua di Gim (l’allenatore storico), l’incordatura delle racchette «perché anche un millimetro dopo quattro ore di campo centrale fa la differenza». Complessi i rapporti con Boris Becker («fottuto tedesco che se la tira da intellettuale e invece è solo un ragazzo di campagna troppo cresciuto») e l’eterno rivale Pete Sampras del quale invidia ironicamente «la monotonia e la spettacolare mancanza di ispirazione».

Scremata la parte mielosa dove Andre racconta che non è più la stessa persona della pubblicità Canon dove diceva «l’immagine è tutto» e che con tutti i soldi guadagnati aiuta i bambini poveri, si ride a pensare che quella sua buffa andatura da “piccione” con i piedi all’indentro era dovuta a una malformazione delle vertebre, la spondilolistesi, che l’ha fatto soffrire per tutte le 869 partite giocate in vita. E che per i figli la parola «ritiro» era sinonimo di «cane», la promessa che avrebbe dovuto chiamarsi Cortisone. La scena finale del libro è un quadretto familiare dove lui e Steffi giocano in un campo pubblico affittato per 14 dollari.