Elisabetta Ambrosi, il Fatto Quotidiano 21/4/2011, 21 aprile 2011
L’ITALIA È LONTANA
Undici settembre 2001: all’interno di una delle Torri gemelle in fiamme, una voce diffusa dai microfoni suggerisce di non farsi prendere dal panico e di restare fermi, aspettando i soccorsi. Alcune persone non seguono le indicazioni, altre sì: queste ultime muoiono tutte. Secondo Edoardo Nesi, autore di Storia della mia gente (Bompiani) finalista al prossimo premio Strega, non c’è immagine migliore per raccontare lo stato d’animo di imprenditori e lavoratori nell’Italia degli ultimi anni. Uno stato d’animo vissuto in prima persona, da imprenditore pratese costretto a chiudere l’azienda di famiglia a causa della concorrenza cinese. E protagonista, come il protagonista del libro, di un’emergenza economica e sociale di fronte alla quale la classe dirigente ha saputo rispondere solo proponendo meno protezioni e più concorrenza. Salvo poi decidere di far saltare queste regole in alcune nicchie, magari quelle delle grandi aziende. Tanto che – spiega l’autore – “siamo in un paese assurdo, dove è impossibile comprare un’auto cinese, mentre tutto l’abbigliamento è in mano ai cinesi”.
Storia della mia gente è una storia di famiglia atipica, allergica all’intimismo ombelicale. La vicenda della chiusura del Lanificio T.O. Nesi & Figli mette in scena una vicenda collettiva, il fallimento di un paese. Quasi che, di fronte alle lacerazioni sociali, di fronte al collasso delle politiche pubbliche, la letteratura non abbia il diritto di smarrirsi nel privato. Per quanto profondo, per quanto sofisticato. Per questo, confida, “sono onorato di essere finalista allo Strega, perché il libro parla di un disagio forte, reale”.
È il disagio di fronte a contrasti immorali, ma anche produttiva-mente folli, capaci di mettere in ginocchio un sistema imprenditoriale. Da un lato, quartieri generali degli stilisti, “monumenti diacci e sterili d’acciaio e cemento e vetro”; dall’altro, capannoni dove i capi griffati sono prodotti da disperati che non hanno neanche i soldi per comprare una delle riviste su cui sono pubblicizzati.
Il suo libro è un urlo contro
una globalizzazione che ha
cancellato una storia. La sua come la nostra.
Non credo che si potesse invertire il corso della globalizzazione, ma il problema è stato quello di averla scambiata per una panacea, un’età dell’oro da abbracciare acriticamente, come hanno fatto i nostri economisti. Bisognava almeno avere il coraggio di dire che le conseguenze sul nostro sistema economico sarebbero state disastrose.
Nel racconto del fallimento, sembra suggerire che meccanismi di protezione avrebbero salvato la sua e altre aziende. Sembra quasi un romanzo... leghista.
Chiunque abbia in mente la scena del doganiere che chiede un fiorino in Non ci resta che piangere sa quanto sia stupido il sistema di protezioni e dazi voluto dalla Lega. Ma se non si può penalizzare un prodotto, si possono chiedere standard di qualità e di diritti. Perché nessuno si scandalizzava quando una fabbrica di scarpe da calcio italiana doveva concorrere con una fabbrica cinese in cui lavoravano bambini in condizione disumane? In altri paese europei c’è stata un’attenzione maggiore per le aziende: si è cercato di stare in Europa, proteggendo al tempo stesso i propri sistemi produttivi.
Al centro del libro c’è anche la paura dell’invasione, tanto che il protagonista ha un incubo ricorrente, il pestaggio di un giovane cinese dal benzinaio.
Qui a Prato ci sono 40.000 cinesi su 180.000 persone. Trovare l’equilibrio tra difesa del sistema produttivo italiano e tolleranza è difficile, specie in un momento di crisi. Eppure questa è l’unica strada che abbiamo, e lo dobbiamo fare in maniera alternativa a chi fa leva sulla paura.
Raccontando la solitudine delle imprese, lei chiama con forza in causa anche l’incapacità della sinistra di comprendere il mondo delle piccole aziende.
La sinistra, e insieme un certo cinema e una certa letteratura, ha troppo spesso dimenticato che padroni e lavoratori sono quasi sempre accomunati dalla stessa sorte. E che il capitalismo italiano ha prodotto benessere in maniera, in qualche modo, democratica.
Nel libro lei è spesso accompagnato da sua figlia Angelica , uniti da un destino comune. Nessun conflitto tra generazioni?
Quello della guerra tra padri e figli è un grande inganno ideologico. Il punto non è come spartirsi la torta, ma come crearne una più grande. Purtroppo l’Italia è governata da ragionieri, che al massimo possono tenere i conti a posto, ma non hanno alcuna idea su come creare sviluppo.
Ha raccontato il dolore per un mondo che non c’è più.
Come sarà il nuovo libro?
Avrà a che fare proprio questo tema. La grande industria non è la risposta. Userei invece l’immagine delle botteghe rinascimentali. Il futuro è la rinascita di un artigianato, manuale e del pensiero, di altissimo libello. Come scrivo nel libro, sarebbe bellissimo se potesse essere la cultura a salvare l’Italia. Se “i romanzi e i film e i quadri e le poesie e le opere e le canzoni e persino la moda potessero aiutare tutti a non perdere il lavoro e a non scivolare prima nella depressione e poi nella povertà”.