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 2011  aprile 17 Domenica calendario

E QUALCHE VOLTA RIESCE IL MIRACOLO

Mezzo secolo di calcio diviso una vita è un conto che regala un risultato sorprendente: «Mille e uno. Nel senso che un anno da allenatore vale, e pesa, come mille da calciatore» . Osvaldo Jaconi è nato nel 1947 sulle rive del lago di Como, ramo manzoniano, e nel ’ 61, quattordicenne, firmò il suo primo cartellino federale. Anno dopo anno, ha versato tutte le quote associative e tutte le stille di sudore di cui disponeva per mantenere vivo il sogno di essere calciatore prima e allenatore poi. Oggi, cinquant’anni dopo, è il secondo tra i tecnici più longevi in attività, dopo Edi Reja, che sta alla Lazio. Quando si dice una vita nel calcio. Quando si dice una vita «dentro» al calcio. Ma un calcio particolare: non quello lustrini e milioni, titoli sui giornali e apparizioni tv; non, insomma, il calcio di Mourinho e Guardiola ma quello robusto, tignoso, carsico delle serie inferiori: B e poi C e ancora C2 e serie D, lettere maiuscole gettate come sassolini lungo l’Italia a punteggiare realtà calcistiche impensabili, a volte microscopiche, comunque rispettabili. Ecco: Osvaldo Jaconi, il signor C, è il totem di questo calcio minore che non muove folle e interessi oceanici ma soltanto il cuore della gente; è l’emblema di quel calcio, diceva un altro Osvaldo (Soriano), che piace in ogni angolo del mondo perché nasconde in sé «ragioni misteriose che la ragione non conosce» . Jaconi ha una storia di combattente del pallone: 20 anni da centrocampista di lotta e di governo, 30 (fin qui) da allenatore. Da calciatore, ha toccato la serie A tre volte (nel Lecco), da allenatore mai. Eppure, superato il traguardo delle 700 panchine, un’infinità, è uno dei tecnici più esperti e vincenti delle categorie basse, con otto promozioni ottenute sul campo e la serie B come massimo. E poi? «Sa quante volte mi hanno fatto questa domanda? Sa quante volte me la sono fatta io stesso? La risposta che mi do, da Capricorno molto autocritico, è una sola: sono bravo ma non abbastanza per essermi meritato una carriera più importante. La serie A l’ho solo sfiorata ma non ho rimpianti, sa? E nemmeno invidie. Faccio ciò che mi piace e mi ritengo un uomo molto fortunato» . Il viaggio dentro al mondo di Osvaldo ha come tappa Bassano del Grappa, ultima meta conosciuta del guru delle serie inferiori. Qui si sta comodamente in Prima Divisione, in una società seria e solida (proprietà Rosso, marchio Diesel) e in una città che lascia lavorare: un ambiente sereno in cui insegnare calcio e vita, equilibrio in campo e fuori, «perché a questi livelli la squadra funziona se tutti remano dalla stessa parte e se si crea una particolare alchimia» . Un gruppo compatto: è quello che Jaconi ha trovato quando un anno fa, già in pantofole a Civitanova, la città dove si è stabilito, gli chiesero di spostarsi a Nordest, in Veneto, la decima regione del suo personalissimo Giro d’Italia col pallone sottobraccio. Lo chiamano a Bassano perché il suo nome è una garanzia: più papà (o zio) che sergente di ferro, più psicologo che maniaco di schemi e tattiche. Il suo tocco, rude e pragmatico, ha trasformato l’ambiente: da club un po’ altezzoso e ben vestito, il Bassano è diventato una squadra di tute blu che lavora di lima e di martello. I giocatori, normalmente, adorano mister Osvaldo. Anche chi, panchinaro, ogni tanto va a chiedergli spiegazioni. «Gli dico: sei in ritardo, dove sei stato fino a ora? E di solito lo spiazzo» . I tifosi, da Nord a Sud, lo hanno quasi sempre osannato: a Livorno, dove conquistò la B, la curva lo chiamava «Vodz» , «che in qualche lingua, non so quale, significa luce, guida» . A Catania lo invocavano via Internet: arrivò primo in un sondaggio sull’allenatore ideale, anche se poi il club scelse un altro. I presidenti subiscono la sua personalità. «Dico sempre: chi mette i soldi ha il diritto di esonerarmi, ma non di rompermi le balle sul lavoro» . Il «Vodz» forse è un tipo scomodo, di quelli che i presidenti maneggiano con cura e, se possono, evitano: «Ma no, non ho mai litigato con nessuno, non ho mai insultato arbitri o avversari. Non perché non ne avessi voglia o motivi: solo perché mi sono fermato un attimo prima, per buon senso, educazione e coerenza» . Ha cominciato quando il calcio andava a due all’ora, si marcava a uomo e il «libero» , maglia numero 6, era l’ultimo baluardo difensivo prima del portiere. Non c’erano tv e moviole, di sponsor neanche l’ombra e il pallone era di cuoio marrone. Qualcosa è cambiato. «Con Arrigo Sacchi, il calcio è diventato un’altra cosa. Prima, il terzino passava i pomeriggi a rincorrere l’ala sinistra e lo stopper a combattere le guerre puniche con il centravanti. Ora tutti fanno tutto, è il cosiddetto calcio globale, non dico che sia meglio o peggio, dico solo che è diverso. C’è più corsa, più dinamismo e il pallone viaggia a velocità pazzesche. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: è aumentato lo stress e c’è troppa gente che si spacca i legamenti del ginocchio» . Lui ha scelto la via di mezzo, quella del buonsenso e delle idee elastiche: «Imporre i moduli di gioco non paga, un allenatore li modifica a seconda dei giocatori che ha. A Bassano siamo partiti difendendoci e finiremo il campionato con tre attaccanti. Questo per me significa allenare in modo sensato. Ancelotti è un allenatore sensato e lo sono anche Del Neri e Guidolin» . E infatti, se potesse guidare una squadra in serie A, oggi sceglierebbe un club tipo l’Udinese, non il Milan, la Juve o l’Inter. «Gli squadroni possono contare su tre-quattro fuoriclasse che, solo esprimendo ciò che sanno fare, ti risolvono i problemi. A quei livelli serve davvero un Mourinho, bravo a gestire la pressione intorno alla squadra e a promuovere il suo personaggio, facendo crescere quotazione e stipendio. Diciamo che è uno che riesce a unire l’utile al dilettevole» . Ne ha viste tante, in carriera, e se le ricorda tutte: «Quindici anni fa ho portato il Castel di Sangro in B. Un puntino piccolo così in Abruzzo, giocatori sconosciuti, però uomini dentro. Non ci filava nessuno, ma pian piano... Insomma, un miracolo. E infatti scrissero anche un libro che si intitolava proprio così, Il miracolo di Castel di Sangro. Io, nel mio piccolo, scrivevo sulla lavagna dello spogliatoio cose strane per motivare i miei calciatori. Tipo questa, prima di una sfida importante: "Niente di splendido fu mai realizzato se non da chi ha osato credere che dentro di sé ci fosse qualcosa di più grande delle circostanze". Sentivo i neuroni agitarsi. Poi entra il presidente, tira una riga sulla scritta e sotto ci mette una cifra, quella del premio partita. Fu il modo giusto per fargliela capire bene, ai giocatori» . Un’altra volta si improvvisò entomologo: «Fate come il calabrone: non ha la struttura adatta per volare ma lui non lo sa e vola lo stesso» . Un’altra ancora si travestì da John Wayne: «Siamo sfavoriti? Sappiate che a volte gli indiani battono i cowboy» . A Bassano è su versanti nietzschiani: «Essere uomini per un giorno è facile, ma capita anche agli imbecilli. Esserlo sempre è difficile, ci vogliono sacrifici e coraggio» . La chiave per farsi capire, dice intuendo il disorientamento dell’interlocutore, è guardare sempre in faccia le persone. Per il resto, l’idea fondante del suo calcio si rifà al mondo contadino: «La terra è così: se non lavori sodo, sei sicuro che non ti ritorna nulla; se dai tutto, forse, e sottolineo forse, ti torna indietro qualcosa» . Pane, calcio e provvidenza: finora, anche a Bassano, ha funzionato. Ma funzionerebbe se, poniamo, invece che La Grotteria o Porchia potesse allenare un Eto’o o un Thiago Silva? Il giochino non piace a mister C: «Ho già allenato gente brava e seria e penso a Chiellini e Protti, a Tiribocchi e Migliaccio, ma uno speciale è Pietro Fusco: era un attaccante di terza serie, con me si è trasformato in difensore, poi è arrivato in A e ha giocato contro Ronaldo e Del Piero. Non esiste paragone: è stata la mia più grande soddisfazione da quando faccio l’allenatore di calcio» .