Paola D’Amico, Corriere della Sera 17/4/2011, 17 aprile 2011
Squèro, il cantiere del ’ 600 dove nascono le gondole - «Si impara sul campo di battaglia il mestiere
Squèro, il cantiere del ’ 600 dove nascono le gondole - «Si impara sul campo di battaglia il mestiere. Al freddo d’inverno, al caldo d’estate» . Lorenzo Della Toffola non alza gli occhi dallo scafo e da una tavola d’abete dritta come un fuso. Poi afferra un fascio di saggina e gli dà fuoco. Una coltre bianca avvolge l’uomo e lo scheletro ancora abbozzato di una gondola. E solo dietro quello schermo lo squerariòlo ritrova la parola: «Il fumo uccide i parassiti del legno» , mormora tra sé e sé, mentre con una mano spruzza d’acqua il legno e con l’altra lo accarezza con la saggina accesa. «Il fuoco scalda il legno senza bruciarlo» . Poi s’alza, spegne con i piedi il sorbo ancora in fiamme e con la mano sinistra spazza ciò che rimane della nuvola di fumo. Lo squerariòlo si volta e mostra un legno che ha cambiato forma, quasi plastico: «La vedi questa tavola d’abete? Acqua e fuoco, i due elementi, e il legno si curva» . In pochi gesti l’artigiano ha rivelato uno, il più elementare, dei segreti di quest’arte di cui Venezia è unica custode. Qui a Dorsoduro, dove il rio de Ognissanti incontra le Fondamenta Nani, il tempo sembra essersi fermato. In campo San Trovaso, lo squèro, il cantiere dove nascono le gondole, forse il più antico, certo l’unico rimasto immutato nei secoli, sembra un posto fuori dal mondo. Con le casette di legno ancora abitate, per metà sospese nelle acque dense e scure del canale: autentiche baite del Cadore trapiantate nella laguna. Perché la Serenissima da quelle foreste maestose della Val di Zoldo e del Cadore faceva arrivare il legno per costruire le sue potenti galee, da destinare ai traffici e alle guerre contro i turchi. Allo stesso modo i remèri, gli artigiani specializzati nella costruzione dei remi delle galee, si rifornivano dai faggeti sull’altipiano carsico e permeabile del Cansiglio. Erano pochi a saperli usare quei legni: i primi squerariòli e remèri sono venuti in laguna dalle montagne, accompagnando i tronchi, tagliati e ricomposti in zattere che erano fatte fluitare lungo i fiumi fino al mare. Ogni fiume un’essenza. L’Adige portava il rovere del veronese e gli abeti del Tirolo, il Brenta l’olmo di Asiago, e poi Piave, Livenza e Tagliamento con roveri ancora, e larici e abeti della Carnia. E in virtù di questi intensi scambi commerciali, un’empatia antica lega la gente del Cadore e la Repubblica di Venezia dacché i primi, alla caduta del potere temporale del Vescovo di Aquileia, nel 1420 avevano votato la loro dedizione alla Serenissima ottenendo in cambio un’ampia autonomia amministrativa, meritandosi il titolo, mai smentito, di fedelissimi. Lo squèro, dove si fabbricano le gondole, spiega Lorenzo Della Toffola, ha una discesa naturale che porta dal capannone all’acqua, come una spiaggia in riva al mare. L’unico luogo qui dove quando c’è l’acqua alta nessuno si lamenta. «Per tirare a secco le gondole non c’è bisogno di gru, ma solo di braccia» . Di braccia forti, per trascinare le eleganti e sottili imbarcazioni lunghe undici metri, un tempo «carrozze» dei nobili e oggi gioco dei turisti, che sembrano farfalle quando sono posate sull’acqua ma che, nude e senza fronzoli, pesano 370 chili. Citati e ricordati in tante calli, gli squèri sono rimasti pochi. C’è Tramontin, da due secoli a Dorsoduro. Altri costruiscono le nobili barche alla Giudecca. Ma tirano su la gondola dall’acqua con la gru, come in un comune cantiere navale. E pochi sono i gondolieri: erano 1.500 nel Settecento, oggi poco più di 400. A San Trovaso si racconta di vogate, di storie d’acqua. La prima domenica di settembre la regata storica commemora il rientro a Venezia di Caterina Cornaro, la regina di Cipro che, vedova spodestata, fu portata in gondola nella sua città. Ogni gondoliere ha la sua imbarcazione da portare lustra alla regata, da tirar su, lavare e restaurare ogni due anni, da mantenere come l’auto di servizio al cambio di stagione. Solo nel 1607 il Consiglio dei Dieci concede agli squerariòli, dapprima legati ai marangòni da navi, di riunirsi in una scuola come ogni altra arte, e proprio lì nella parrocchia dei Santi Gervasio e Protasio, che sta dietro al nostro squèro, essi acquistano una loro autonomia giuridica. È e resterà una cerchia ristretta di addetti ai lavori. Ermetico è anche il linguaggio. Questo spazio stretto tra la grande chiesa di San Gervasio e San Protrasio e il canale, dove per secoli si sono incontrate le maestranze di Zoldani, Cadorini e Bellunesi, è ancora un crocevia vivacissimo, anche se oggi arrivano più curiosi e turisti, che aspiranti ragazzi di bottega. Quelli il cui apprendistato al tempo delle corporazioni soppresse da Napoleone era fissato «de octo anni per lo meno» , tenuti «a pan e vin» dal maestro, e che oggi, invece, «arrivano con il diplomino in tasca di maestro d’arte triennale, esamino già fatto alla capitaneria di porto. E si sentono maestri veri» . Della Toffola, che a bottega c’è stato per davvero, è figlio di architetti, per un po’ ha fatto il gondoliere. «Ma mi pareva di fare il commesso della Standa» . Ha 46 anni, da sedici ha in gestione lo squèro che è un vero monumento nazionale. «Il mestiere io però l’ho imparato dal vecchio Tramontin. Il Nedis, l’ultimo dei grandi squerariòli. Devo a lui ciò che sono, mi ha tramandato i segreti. Arrivava qua la sera e mi spiegava che cosa stavo sbagliando. Sono stato fortunato» . È un mestiere fatto di segreti. C’è un segreto per tutto. I vecchi di oggi raccontano che da ragazzi, quand’erano a bottega e arrivava il momento di fare qualcosa di serio, i maestri d’ascia buttavano i chiodi per terra e li costringevano a raccoglierli, per non mostrare loro i trucchi del mestiere. Alla libreria Filippi, in Calle del Paradiso 5763, l’anziana titolare che qui è un’istituzione, sfoglia un introvabile volume. «È del 1600 il suo squèro, legga qui, vede? Sul rio de San Trovaso, tre corpi di fabbrica, più alti i primi due, il balcone con il parapetto in legno, la tettoia o tesa per riparare le barche» . Casette affollate, quasi macchie di colore, dai legni bruniti alle murature di mattoni rossi. L’unico rimasto nella sua purezza, degli altri è rimasta traccia solo nelle carte, nelle tele dei pittori, nella tradizione orale. La stessa che racconta degli squerariòli «obbligati a servire come rematori sulle galere» . Come oggi, un giorno a testa, a turno, i gondolieri sui traghetti. Il nostro squerariòlo dice: «Ci vogliono due mesi per costruire una gondola, otto tipi di legno diversi, tutti inchiodati, niente colla» . Costo ventimila euro solo lo scafo. Undici metri di lunghezza, i pezzi— 280 pezzi — tutti fatti a mano e tutti diversi, in barche già asimmetriche, a misura di gondoliere. Se chi rema è pesante «si alza la poppa, così quando sale la barca non s’impenna» . La chiglia a fondo piatto per pescare meno e non incagliarsi nelle secche, l’abete per lo scafo, l’olmo per i sanconi, la quercia — che più sta in acqua più diventa dura — per legarli, il mogano per le coperture, la forcola in noce. D’inverno, il gelo che penetra dalle fessure di quei muri di mattoni rossi del capannone spariglia gli odori del fuoco e delle vernici. Non i profumi e i sapori del Bottegon lì davanti, affacciato sull’altro lato del canale, dove vino Merlot e stuzzichini spalmati con crema di stoccafisso riscaldano chi capita qui per caso, lasciata la strada certa delle Zattere. Si pennella la chiglia di corsa d’estate quando la vernice asciuga con un battito d’ali, lentamente d’inverno quando la devi pregare. Perché in questo luogo dove il tempo si è fermato, sono le stagioni e la luce del giorno a dettare il ritmo del lavoro.