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 2011  aprile 20 Mercoledì calendario

L’uomo che non vuole arrendersi al futuro - La volta scorsa, e son già passati quasi diciassette an­ni, ci rimisi solo un po’ di amor proprio

L’uomo che non vuole arrendersi al futuro - La volta scorsa, e son già passati quasi diciassette an­ni, ci rimisi solo un po’ di amor proprio. «Tempo! Rit­mo! Risparmio!» mi aggredì il Vichi filando come un cac­ciatorpediniere tra i banchi in ferro della gran fabbrica che ancora rosseggia nel verde della campagna di Ab­biategrasso. «Tempo! Rit­mo! Risparmio!», mi intimò mescolando furiosamente lo zucchero in fondo al bic­chierino del mio caffè, do­po essersi impadronito con la forza del mio bastoncello di plastica. Oggi il baston­cello del caffè se lo passano in tre: lui, sua moglie Anna­maria e la figlia Luisa, che gli danno una mano in fab­brica. «L’ultimo lo ciuccia», sentenzia seria la signora Annamaria. «Il tempo vola se non è vissuto pienamente», bla­terava Carlo gi­ganteggiando dal basso del suo me­tro e settanta e fu­mando dalle nari­ci. « Guardi i bam­bini! Da un Nata­le all’altro gli pa­re che passi un’ eternità. Sa per­ché? Glielo dico io: perché riem­piono le loro gior­nate di mille fac­cende. Stia in guardia, gior­nalista, non sprechi tempo! E via quell’aria da addor­mentato! » . Stavolta, insieme con un altro po’ di amor proprio, ci ho rimesso anche qualche sopracciglio, di quelli che stanno in mezzo tra i due. Parendogli del tutto super­flui (io però ci ero affeziona­to) ha allungato a bruciape­lo una delle sue manone da fabbro, me li ha pinzati tra pollice e indice e STRAP! Però alla fine, salutando­ci, ci siamo scambiati un bel po’ di pacche sulle spal­le e di sorrisi, e di arriveder­ci, finchè lui non si è riassun­to tutto in un attenti! e mi ha urlato: «Saluto al Duce!» E io, di rimando: «A noi!». Ma così, per ridere. Mentre in­vece lui, che ancora inalbe­ra sotto l’ultimo bottone del­la camicia chiusa al colletto una spilla che riproduce un fascio («repubblicano, non littorio: la prego di non scri­vere fesserie») fremeva fin nell’intimo, essendo il suo intimo quello di un fascista al quale la definizione di fa­scista va un po’ stretta. «Vuol mettere la statura di un Hitler?» si era commos­so un momento fa squader­nandomi sotto il naso un bell’album della Kriegsma­rine del Terzo Reich. Carlo Vichi, dunque. Ot­tantotto anni, ma come se ne avesse ancora i settantu­no del ’94. Stesso maglionci­no da bancarella, stessa ca­micia nocciola da quattro soldi, i capelli bianchi che sembrano usciti dagli ingra­naggi di una scala mobile, stessa aria da trappista lieto di essere sul pianeta. E stes­sa carica al fulmicotone. Con questa differenza: che allora la sua Mivar (Milano Vichi Apparecchi Radio) aveva 550 dipendenti, ven­deva seicentomila televiso­ri l’anno, fatturava 250 mi­liardi di lire e deteneva il 20 per cento del mercato. Og­gi, dalla vecchia sede della Mivar, di televisori ne esco­no 150 al giorno, quando va bene. Componentistica ci­nese, prevalentemente, schermi piatti a cristalli li­quidi. E settanta i dipenden­ti. Ma il Carletto non molla, e così, ora che anche la Phili­ps ha gettato la spugna, lui è rimasto l’unico fabbricante europeo di televisori. Ogni volta che vende un apparec­chio ci rimette un bel 150 eu­ro, ma a lui sta bene così, an­che se alla fine dell’anno la perdita secca si aggira sul milione di euro. Possibile? Possibile. I soldi son suoi. Mai chiesto un euro alle banche. Dunque anni di cas­sa integrazione, di ristret­tezze, di falcidie nei ranghi, di ritirate su ogni fronte stra­tegico. E tutto questo per un errore che sembrava da nul­la, all’inizio: avere investito sul tubo catodico anziché sullo schermo piatto. Per di­re: l’ultimo televisore a tu­bo catodico uscì dallo stabi­limento di Abbiategrasso a metà giugno del 2008, tre mesi dopo che la Sony ave­va licenziato l’ultimo esem­plare del mitico Trinitron. Nel frattempo tutta la com­ponentistica (tranne i tele­comandi e qualche altre sce­mata) si radicava nelle fab­briche asiatiche, e nel cielo della Mivar si scatenava l’al­tra grande mazzata: quella del digitale terrestre, che impose televisori col deco­der incorporato. Carlo Vichi riassume così: «Resisto per puntiglio, per­ché questa è la mia vita, per­ché la Mivar è la mia opera. Siamo come nella Repubbli­ca di Salò, ma non faremo la stessa fine. E io, che pur es­sendo violentemente ateo credo in un mondo spiritua­­le, voglio presentarmi con la coscienza in ordine. Resti­tuisco oggi quello che ho avuto negli anni buoni. Ma stia attento a dire che la Mi­var naviga in cattive acque. In cattive acque ci naviga lei, casomai!» Però che tristezza, e che malinconia, fra la ventina di operai che si baloccano con un 32 pollici che se ne viene lemme lemme giù per una breve catena di montag­gio fino alle mani esperte della signora Fausta, al ban­co del collaudo. Sembra di essere in un capannone in­dustriale della Dresda ante­guerra, prima dei bombar­damenti. Lui però, il Vichi, toscano di Montieri, in Ma­remma, non se ne dà per in­teso. All’inizio degli anni Novanta spese 100 miliardi di lire per mettere in piedi la nuova, mirabolante sede della Mivar. Contava di sfor­nare due milioni di pezzi all’ anno. É finita che in quello stabilimento non ci sono mai andati. Ma lui è rimasto quello di prima: una specie di capitano Achab in guerra con la balena bianca della modernità che ha gli occhi a mandorla, i cristalli liquidi, la pelle gialla e giorno dopo giorno gli sta fracassando la chiglia del bastimento. Lui è lì, tra i marosi, impassibi­le. Fra scoppi di collera e di allegria. Mentre mi parla, seduto alla sua solita scrivania (un nudo bancone di ferro da ti­pografo col piano di gom­ma nero piantato in mezzo al capannone centrale della sua fabbrica) gli occhi gli sci­volano su un armadietto che sta alla sua sinistra. Già, ecco la vecchia foto del Du­ce e di Claretta Petacci appe­si a testa in giù a piazzale Lo­reto. Accanto, una frase con­tundente di Mussolini: «O si riesce a dare una unità al­la politica e alla vita euro­pea, o l’asse della storia mondiale si sposterà defini­tivamente oltre Atlantico, e l’Europa non avrà che una parte secondaria nella sto­ria umana». «Eh?» dicono gli occhi di Vichi, cercando approvazione. Il despota intrattabile, il bieco fascista, l’ultimo mohicano della Tv euro­pea, il maremmano incazzo­so e ardente è stato un tiran­no amato dai suoi dipenden­ti. Se gli parlate di Statuto dei lavoratori vi metterà le mani al collo. Ma è lo stesso Vichi che per i suoi operai, nel nuovo stabilimento, ave­va progettato di tenere me­tà dell’area a bosco, perché le auto dei suoi ragazzi stes­sero al fresco, d’estate; e poi una mensa coi fiocchi, e gli ambienti condizionati... «La gente scatterà dal letto al mattino per il piacere di venire a lavorare da me», so­gnava. Sì, le cose sono anda­te diversamente. E tuttavia: tanto di cappello, signor Vi­chi.