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 2011  aprile 19 Martedì calendario

SONO FINITE LE SCORCIATOIE

Per capire la decisione da parte di Standard&Poor’s di cambiare il suo giudizio sul debito Usa da «stabile» a «negativo», immaginate un alpinista che scala il Mount Rushmore e prende a scalpellate il nasone di pietra di Abramo Lincoln o le basette di George Washington.
Di per sé il gesto non è né gravissimo né irreparabile, ma il suo valore simbolico va ben al di là del danno pratico.

I mercati azionari, che di simbolismo e impulsi vivono, questo l’hanno capito subito e sono crollati non appena appresa la notizia che S&P aveva peggiorato il suo giudizio sulla posizione fiscale degli Stati Uniti per la prima volta nella storia.

L’oro, il bene rifugio per eccellenza in momenti difficili per l’economia più grande del pianeta, è balzato a un nuovo record mentre il dollaro è calato.

La reazione degli investitori è comprensibile: il sistema finanziario globale del dopoguerra è basato sull’assioma che il debito del governo statunitense è «a rischio zero» - lo Zio Sam prima o poi paga sempre ciò che deve - e che il dollaro verrà sempre accettato come moneta di scambio nell’economia mondiale.

Le parole di S&P hanno fatto incrinare entrambi i pilastri, erodendo la fiducia dei mercati nel modello economico americano.

Dal punto di vista tecnico, la decisione di S&P è semplicemente un ammonimento: se gli Usa non riducono il loro enorme deficit fiscale e debito pubblico prima del 2013, c’è una possibilità su tre che l’agenzia di rating ridurrà la sua valutazione di «tripla A» - il più alto punteggio per il debito sovrano - per gli Usa.

Ma quando si parla di debito e deficit in America - la questione politica più ostica e discussa del momento - nulla è tecnico, e l’avvertimento di S&P è riverberato come un tuono a Washington.

Un po’ come la situazione in Italia prima dell’avvento dell’euro, i partiti politici sanno benissimo che la situazione fiscale è insostenibile ma non hanno la volontà, il coraggio politico e l’esperienza economica per risolvere velocemente la situazione.

Leggere i dati è da film dell’orrore (lo si potrebbe chiamare «Nightmare su Wall Street»). Tra il 2003 e il 2008 il deficit pubblico del governo Usa è fluttuato tra il 2 e il 5 per cento del Pil, più alto di molti altri Paesi con la «tripla A». Nel 2009, però, si è gonfiato fino a raggiungere l’11 per cento del Pil - una cifra astronomica. Per finanziare queste spese enormi, il governo americano si è ipotecato un po’ tutto, vendendo titoli del Tesoro come se fossero caramelle: negli ultimi tre anni il debito pubblico americano è raddoppiato, raggiungendo quota 9000 miliardi.

Il fatto che la metà di queste cambiali siano in mano a investitori stranieri, soprattutto la Cina e il Giappone, non fa altro che aumentare l’ansia degli americani sul declino del loro stile di vita e il loro ruolo come padri-padroni del capitalismo mondiale.

Il dilemma del governo americano non è insolubile. Anche uno studente al primo anno di economia sa che per ridurre il deficit bisogna tagliare le spese e alzare le tasse. E negli ultimi giorni sia l’amministrazione Obama sia l’opposizione repubblicana hanno proposto pacchetti di azione che dovrebbero ridurre il deficit di più di 4000 miliardi nel prossimo decennio.

Ovviamente, i due piani evitano scrupolosamente di parlare di tasse - l’equivalente del cianuro per un politico di Washington - e si limitano a vaghe promesse di misure di austerità.

Il problema è che, in materie economiche, ai politici ormai non crede più nessuno. Non i mercati, non gli investitori e, a partire da ieri, non le agenzie di rating. Dopo anni di errori economici e fiscali, le belle parole sui tagli alle spese non bastano più.

L’unica speranza è che la mossa di S&P faccia capire ai potenti di Washington che questa volta bisogna fare sul serio, come anche alcuni Paesi della Vecchia Europa sembrano aver imparato.

La ricetta non è complicata ma potrebbe essere indigesta: o tagli alla sanità, alle pensioni e alla sicurezza sociale - con il rischio che, senza un minimo di «Welfare State», i poveri statunitensi diventeranno ancora più poveri; o aumenti seri delle tasse, soprattutto su quell’1 per cento della popolazione che controlla più del 40 per cento della ricchezza del Paese, una mossa non facile per politici che si vogliono far rieleggere.

«Our back is against the wall», «Abbiamo le spalle al muro», mi ha detto un vecchio marpione della finanza ieri, e ha perfettamente ragione: il bello e il brutto della situazione americana è che non ci sono più scorciatoie.

Il tempo per la retorica politica è scaduto. L’economia americana e il sistema finanziario mondiale non si possono permettere più frane sul Mount Rushmore.