Giorgio Dell’Arti, La Stampa 17/4/2011, PAGINA 86, 17 aprile 2011
VITA DI CAVOUR - PUNTATA 92 - DOVE METTERE LA CAPITALE?
Primo giorno?
«Folla plaudente nelle due piazze, bandiere per le strade, case illuminate a festa fin dalla sera» (Levra). Era la prima camera italiana davvero funzionante. Il re era al fronte, e il discorso della Corona fu pronunciato da suo cugino, principe Eugenio di Savoia-Carignano: «... In Italia le disgiunte parti tendono ogni giorno ad avvicinarsi, e quindi vi è ferma speranza che un comune accordo leghi i popoli che la natura destinò a formare una sola nazione [...] Se avviene che la desiderata fusione con altre parti della penisola si compia, si promoveranno quelle mutazioni [...] che valgano a far grandeggiare i destini nostri ...». Un discorso molto unitario.
Che cos’è la «desiderata fusione»?
Erano i primi di maggio, a Torino si dava ancora per scontata la vittoria. Dopo la vittoria, Piemonte, Lombardia e magari il Veneto si sarebbero dovuti fondere. In che modo? Estendendo a tutti lo Statuto piemontese? Con Carlo Alberto in trono? Quanti nuovi deputati nella Camera del nuovo stato? Ed eletti come?
Non era un po’ presto per litigare su queste cose?
Ci si ostinava a pensare che gli austriaci sarebbero stati facilmente sloggiati dal Quadrilatero, e costretti ad andarsene. Gli inglesi volevano che al Regno di Sardegna venisse rapidamente annessa la Lombardia, almeno fino all’Adige. Ho adoperato la parola «annessa», che all’epoca fu evitata con cura. Si parlava, appunto, di «fusione» o «unione».
Tutti d’accordo? Non c’erano polemiche tra torinesi e milanesi?
Un mucchio di polemiche. Esistevano un partito piemontese a Milano (collocato a destra) e un partito lombardo a Torino (collocato a sinistra). Mazzini era arrivato a Milano e fece sottoscrivere una petizione contraria alla fusione. C’era anche l’odio per Carlo Alberto. Cattaneo non voleva sentir parlare di Carlo Alberto, diceva anzi che la cacciata dello straniero era un problema secondario: bisognava concentrarsi piuttosto sulla forma istituzionale, che doveva essere repubblicana. Mazzini la vedeva in tutt’altro modo: ci si doveva prima di tutto liberare degli austriaci. Dichiarò: accantono il problema repubblica-monarchia, tutto è sovrastato dalla questione di cacciare lo straniero. Cattaneo lo tacciò di venduto.
Come ne uscirono?
I milanesi indissero un plebiscito. Bisognava o no fondersi col Piemonte? Bisognava o no convocare una costituente sardo-lombarda che stabilisse le basi di una nuova monarchia costituzionale con la dinastia dei Savoia? Il 29 maggio si fece il plebiscito in Lombardia e anche a Vicenza, Treviso, Padova e Rovigo. In Lombardia la fusione col Piemonte fu approvata con 561.002 voti contro 681.
Taroccamenti?
I plebisciti sono quello che sono. Il voto è praticamente palese. I numeri sono esagerati, come saranno poi quelli del ’60, taroccati infatti alla grande. Non credo però che, rispettando tutte le regolarità e le garanzie, la fusione o l’annessione sarebbero state bocciate. Né nel ‘48, né nel ‘60.
Come reagirono a Torino?
Venne una delegazione, quattro lombardi e quattro veneti. Concordarono un progetto per l’unione. I punti essenziali erano: che il re del nuovo stato sarebbe rimasto Carlo Alberto; che si sarebbe eletta a suffragio universale un’assemblea che scrivesse una nuova costituzione. La sinistra torinese (Brofferio, Rattazzi, Valerio) vedeva questa Costituente come la via maestra per ridiscutere lo Statuto e ottenerne uno più avanzato. Circondare la monarchia di istituzioni repubblicane. Oltre tutto col suffragio universale. Il ministro Ricci presentò il disegno di legge il 15 giugno.
E la capitale?
Erano questioni persino sulla città in cui l’Assemblea costituente si sarebbe dovuta riunire. Cavour scrisse un articolo (23 giugno 1848) la cui tesi era questa: abbiamo una classe dirigente così scarsa, è chiaro che molti degli eletti alla Camera faranno anche parte della Costituente. Come volete che possano passare da un’assemblea all’altra se ci si deve sobbarcare al tragitto Torino-Milano? In realtà, la questione della capitale faceva sparire di colpo sia il partito piemontese di là che il partito lombardo di qua. I torinesi volevano Torino e i milanesi Milano, senza discussioni. I milanesi erano convinti di essere più avanti dei torinesi in tutto: amministrazione, cultura, leggi. I piemontesi non potevano nemmeno lontanamente ammettere che il loro primato potesse essere messo in dubbio. I genovesi stavano piuttosto con Milano e accusavano Torino di municipalismo. Giovanni Maria Papa scrisse sul «Corriere Mercantile» articoli molto violenti contro Torino. Cavour gli rispose: « L’accusare i piemontesi d’egoismo municipale, mentre si distinguono sovra ogni altra popolazione italiana per l’immensità dei sacrifici fatti e per lo spiegato valore sui campi di battaglia, è cosa che move a pietà più che a sdegno ». Nelle intemerate cavouriane di quei mesi i genovesi fecero tutt’uno con gli avvocati. Intanto i savoiardi fecero sapere che se la guerra d’indipendenza non fosse finita presto, avrebbero chiesto l’annessione alla Francia.