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 2011  aprile 17 Domenica calendario

La Ganga, l’ex mostro ritorna - Nello studio di Giusi La Ganga è come se il tempo si fosse fermato

La Ganga, l’ex mostro ritorna - Nello studio di Giusi La Ganga è come se il tempo si fosse fermato. C’è un busto di Nenni, le foto di Turati appena fuggito dal confino fascista, Pertini, i Rosselli, Parri. Ci sono le immagini del congresso Psi di Torino del ‘78 (il primo dopo il Midas). Sul tavolo c’è il discorso di Craxi al congresso di Palermo dell‘81 (quello del “Viva l’Italia”). Ci sono tutti i buoni libri delle case di sinistra. Lui, a 63 anni, sia pure un po’ ingrigito, ha la verve di sempre. Il mostro di Tangentopoli alleato di uno di quelli che i suoi ex compagni considerano un vostro carnefice. La Ganga, che ci fa con Fassino? «Ex mostro, prego. Mi ha chiesto di lavorare con lui. Ho accettato sfidando le contumelie e per fare quel grande partito riformista che il Pd ancora non può essere senza la riconciliazione tra ex comunisti ed ex socialisti». Con quale obbiettivo? «La mia idea è che Torino possa diventare la capitale del Pd che non è più né Bologna né Firenze, con buona pace di Renzi. È al nord che si deve vincere, governare bene e tenere quei ceti che normalmente voterebbero centrodestra». Lei crede nel Pd? «Rispondo con una battuta di Macaluso: il Pd è pessimo, ma è l’unica cosa che c’è. Abbiamo il dovere di lavorare perché occupi meglio lo spazio di una sinistra riformista. Altrimenti continuiamo a inseguire le chimere. E poi è l’unico partito che non appartiene a qualcuno. Si guardi in giro: forme mostruose di partiti-famiglia e partiti-aziendine dove il capo si sveglia, cambia la linea e tutti obbediscono per non perdere il posto». Ma questo andazzo non è cominciato con Craxi? «Non è lui il responsabile di tutti i mali. Gli ho parlato a lungo anche dopo il ‘94 e posso assicurare che era molto critico su come si erano messe le cose. I suoi modelli erano Mitterrand, Brandt, Felipe Gonzalez: grandi leader con grandi partiti. Non pensava a one man party , era fuori dalle sue coordinate». Fu Bobbio, uno dei suoi venerati maestri, ad accusarlo di aver instaurato la democrazia dell’applauso. «Bobbio dimenticava però la lezione che dava ai suoi studenti cominciando il corso di filosofia del diritto: la democrazia è quel sistema nel quale il voto mio, suo, di Bobbio è uguale a quello della nostra portinaia. Questo vuol dire che una leadership dotata di carisma, non è marginale in nessuna democrazia. E nel ‘92 il vituperato Craxi che faceva fuori tutti, su 98 deputati, ne aveva 27 della minoranza e li rispettava. Adesso abbiamo pervertito la democrazia». Sta di fatto che è con Craxi e il vostro partito che si è arrivati a Tangentopoli. «Fu spregiudicato, prendeva tutto ciò che serviva a ingrossare, seguiva l’idea nenniana della politique La questione settentrionale Torino, non più Bologna o Firenze, può diventare la capitale democratica È al Nord che si deve vincere e tenere quei ceti moderati Sul ruolo di Bettino Craxi non è la causa di tutti i mali. Lui pensava a grandi leader con grandi partiti. Non pensava a one man party Sui magistrati Non ce l’ho con loro, con me hanno fatto il loro mestiere, con rispetto Ce l’ho con ciò che c’era intorno a loro, la canea urlante d’abord, la grande politica che avrebbe riscattato anche l’intendenza più sgangherata. Purtroppo la qualità dell’esercito ha danneggiato alla fine anche il generale. Ma il sistema politico si finanziava in quel modo dalla Liberazione in poi». La sua prima tangente? «Diciamo il primo contatto con il mondo del finanziamento della politica. Era il 1968, avevo vent’anni, avevamo appena fondato la corrente giolittiana, quella degli intellettuali. A Torino il capo era Detto Delmastro, che veniva dalla Resistenza ed era stato il braccio destro di un eroe come Duccio Galimberti. Avevamo bisogno di organizzarci e chiedemmo a Giolitti. Lui ci disse: rivolgetevi alla Fiat. In corso Marconi c’era specie di sportelletto che aiutava tutti: circoli, oratori, i salesiani, gli sportivi, i partiti. Era come la mamma. Ci sono andato con Sergio Borgogno, che era il nostro segretario e parlava sempre in piemontese. Scese con un pacchettino e mi disse severo: “’ste cose a-s-fan par ‘l partì, nen par nui”, si fa per il partito, non per noi». È finita con la vignetta di Forattini, Craxi e i capi socialisti vestiti da gangster: arriva La Ganga! «Devo la mia immortalità a quella vignetta. Ma cosa ci posso fare? L’estrema risorsa dei cretini è attaccare le persone per il cognome che portano». Però non c’era scandalo o inchiesta in cui non ci fosse il Psi: eravate una vera «gang». Lei come reagì alle inchieste? «Era il ‘93, mi sono dimesso e ho aperto una discussione proponendo a tutti di autodenunciarci. Dissero che ero un coglione. Non Craxi». E lei che fece? «In democrazia bisogna saper scendere da cavallo e non solo salire, rinunciai all’immunità parlamentare, andai dal procuratore di Torino Marcello Maddalena, un uomo che stimo molto, e gli dissi le cose che riguardavano il Psi. Mi presi le responsabilità che avevo e anche alcune che non avevo». E come finì? «Con un patteggiamento e una multa valutata in base ai beni che possedevo, circa 500 milioni, praticamente tutto quello che mi aveva lasciato mia mamma». Lei si è arricchito con la politica? «Io non ho neanche una casa al mare. Hanno indagato anche a Santo Domingo dove non ero mai stato, c’era decine di inchieste aperte su di me, da Verbania a Castrovillari. Ma sono stato prosciolto in istruttoria ovunque. Io ho avuto una posizione di grande potere e non ne ho approfittato. Il successo politico a cui sono più affezionato è stato fare il presidente degli studenti del D’Azeglio: il figlio di un immigrato siciliano nel liceo dell’élite azionista di Torino». Ce l’ha con i magistrati che l’hanno inquisita? «No, hanno fatto il loro mestiere, con rispetto e dialogo. Ce l’ho con ciò che c’era intorno a loro, i giornalisti, la canea urlante». Le monetine del Raphael? «Sì, ricordo la folla reduce dal comizio di Occhetto. Brutta vicenda. Ma l’Italia è quella di piazzale Loreto: prima i partigiani esposti e poi i loro carnefici. Siamo l’unico paese al mondo fermo su una lite politica di vent’anni fa che tuttora blocca la costruzione di una sinistra moderna, non di testimonianza, ma in grado di vincere le elezioni. È il cuore della questione del Pd. Siamo nella fase terminale del berlusconismo: o convinciamo una parte significativa del paese che è stata con il centrodestra, oppure restiamo inconcludenti». Ce l’ha con i giustizialisti? «Certo. Quando sento Moretti dire che con questi capi la sinistra non vincerà mai, mi viene da rispondergli con un paradosso: con lui e questa base non vinceremo mai. Moralisti e velleitari». Lei è sempre rimasto nel centrosinistra. Pensa che Craxi avrebbe fatto altrettanto? «Io penso di sì. Era un uomo novecentesco, il suo orizzonte era l’unificazione delle sinistre e quando cadde il muro di Berlino, fece mettere alla sua finestra due bandiere: il tricolore e quella rossa del partito. E a noi della segreteria disse: è un rosso di cui non ci dobbiamo vergognare». I figli si sono divisi: Bobo a sinistra, Stefania a destra. «Mi lasci citare Nenni: la politica non si fa con i sentimenti e ancor meno con i risentimenti». E quindi lei va con Fassino: l’ex immorale con gli ex moralisti. Non temete di sembrare un coppia del passato? «La politica si fa con le idee, le primarie torinesi hanno tagliato il nodo generazionale. Certo Piero avrà anche il compito di allevare una nuova generazione e per quel che mi riguarda non preoccupatevi: io sono uno dei tanti e non sarò ingombrante».