SERENELLINI, Repubblica 17/4/2011, 17 aprile 2011
PATTI SMITH
Un arbusto smagrito. Asciutto. Mascolino. «Corpo di cavalletta», è l´affettuoso cartellino che le appiccica Jennifer Lesieur nella fitta biografia edita da Castor. Gli anni, e i dolori, anziché appesantire il suo corpo, l´hanno come prosciugato, stampando pieghe consapevoli sopra i sorrisi senza storia d´un tempo: striature bianche dentro la capigliatura imbizzarrita, scavi severi in un viso che s´è fatto pergamena, maschera precolombiana. Patti Smith non s´è mai lasciata alle spalle i suoi vent´anni. Li ha di volta in volta trasformati, in musica, in poesia, in pittura, in nuovi assalti, ogni volta un balzo indietro per tornare a guardare avanti: «Ho l´impressione che, via via che invecchiamo, le età trascorse tornino a rivivere in noi. A trent´anni ero un´altra rispetto ai venti. Ma oggi risento dentro la stessa tensione, la stessa rabbia che avevo da adolescente». Così, nel 1996, a cinquant´anni, ha potuto trasferire intere stagioni di foglietti sparsi in un racconto lirico, Mar dei Coralli, dedicato al primo amore, poi eterno amico fraterno, Robert Mapplethorpe, il fotografo morto di Aids nel 1989, che ora - a oltre quarant´anni da quella primavera di bohème nella New York underground di fine Sixties - fa rivivere in Just Kids: «Ci incontrammo per caso, quando, in cerca d´una stanza da affittare al Greenwich Village, ho suonato a un indirizzo sbagliato. Lui era lì, di passaggio da amici. È venuto a aprirmi: non ci siamo più lasciati». Mapplethorpe è la ferita di corallo di Patti Smith, che a sessantacinque anni (il prossimo 30 dicembre) ha stratificato i suoi lutti d´arte - Jim Morrison, Kurt Cobain, William Bourroughs, Allen Ginsberg, Jackson Pollock, Andy Warhol, Gregory Corso - e quelli più privati (il marito e il fratello, morti a un mese di distanza nel 1994) sul suo volto di sfinge spaesata, fragile scultura di mantide impietrita: insetto, fuori catalogo, dell´entomologia rock. «La musica, insieme alla letteratura, è stata il mio latte di prima crescita. Come ho imparato a leggere, mia madre ha preso a rovesciarmi sul tavolo libri comprati "a peso", proprio così: un sacchetto, un dollaro. Era una festa: subito tutt´e due a scoprire con mani golose quei regali del caso. Classici, pulp, manuali di bricolage e, persino, libri per bambini. Credo che il mio paesaggio mentale abbia cominciato a oscillare allora: divoravo a tonnellate favole e fumetti di supereroi, in uno stato d´allucinazione febbrile per la scarlattina di cui ho sofferto verso i sette anni. Per non tenermi dentro quelle visioni spaventose, ho cominciato a trascriverle, a disegnarle». Pratica felliniana o, se unita a febbre, surrealista: «È quel che ho continuato a fare tutta la vita: quando qualcosa mi sconvolge, traduco l´incubo in uno scritto o in un disegno, perché smetta di perseguitarmi». E la musica? «Già da ragazzina avevo messo insieme una mia band, con mio fratello minore e altri maschietti: nome altisonante, da vero gruppo rock, "The Buddy Gang Cool Cats". Eravamo i leader del quartiere. Ma la mia epifania è Little Richard: The Girl Can´t Help It mi aveva tolto il respiro, Tutti Frutti mi trascinava in danze d´estasi. È stata la mia nascita rock´n´roll. Con una manciata di cents, mi son comprata i primi dischi: Harry Belafonte, Patience and Prudence, Neil Sedaka, di cui ho fatto girare tante di quelle volte Climb Up che alla fine i solchi erano vinile arato». Qual è stata la sua prima canzone? «La prima che mi ricordo d´aver cantato è Jesus Loves me: avrò avuto neanche quattro anni, ero seduta su una scalinata, mentre uno con l´organetto risaliva con la sua scimmia addomesticata. Abitavamo a Chicago nel South Side, il grande ghetto misero per neri e classe operaia: i miei genitori, poveri di studi e di tutto, erano però curiosi, aperti, lettori accaniti e fini melomani. Mio padre, ateo e bestemmiatore ("non lasciatevi prendere nella trappola di Dio", ci ammoniva), era appassionato di letture esoteriche. Mia madre, testimone di Geova, cantava jazz nei ritagli di tempo. Le prime arie che ho imparato provenivano sia dal giradischi nel salone che dalla cucina, dove canticchiava mia madre: è lei che mi ha trasmesso un´adorazione per i cantanti bianchi di jazz anni Quaranta-Cinquanta, da Artie Shaw a Judie Garland». E anche per l´opera: «Puccini, prima di tutto. Mi sedevo a ascoltarlo e piangevo. Non capivo una parola, l´italiano m´era lingua marziana, ma l´intensità perfetta del suono bastava a farmi galleggiare in un altro mondo: Madama Butterfly l´ho ascoltata e riascoltata fino all´usura del disco, Un bel dì vedremo ho finito per saperla a memoria. Nella provincia americana dove vivevo negli anni Cinquanta era impensabile ma, se fossi nata in Italia, sono sicura che avrei fatto di tutto per diventare una cantante d´opera». L´Italia - dove torna mercoledì prossimo per l´Earth Day di Roma nel megaconcerto gratuito con Carmen Consoli - s´è comunque imposta come leit motiv nella sua vita: «È vero. Quando una trentina d´anni fa sono rimasta immobilizzata per una brutta caduta dal palco, tra un libro e l´altro visionavo i film di Pasolini. Il Vangelo secondo Matteo è stato una rivelazione, per l´idea di un Gesù rivoluzionario: io, che in scena lo attaccavo, sulla scorta dei precetti di mio padre, e degli sfoghi di Albert Camus (Horses s´apriva con l´invettiva: "Sei morto per i peccati degli altri, non per i miei"), ho cominciato a considerarlo in un´ottica diversa: di professore, combattente, guerrigliero». E nell´album del 1979, Wave, lei innesta un´intervista immaginaria a Papa Luciani, l´effimero predecessore di Wojtyla, nel pezzo conclusivo che sfuma nel mormorio "Good Bye Sir, Bye Papa". Perché? «Lo vedevo come un pastore, non come un´icona cattolica. Sentivo che Giovanni Paolo I era umano, che ci avrebbe finalmente dato un Vaticano a misura d´uomo. Ma è restato papa solo sessanta giorni». L´Italia è anche la tappa, nel 1979, di due concerti-record, per lei traumatici, ottanta e settantamila fan negli stadi di Bologna e di Firenze, dopo i quali aveva preso la decisione, poi fortunatamente rientrata, di abbandonare per sempre la scena rock: «Avevo finito per essere disgustata dal circo Barnum della musica, dalla sua nevrotica ansia competitiva, dalla sua vanità. Il rock nasce dalla strada, appartiene alla gente, è il suo modo di comunicare: non dovrebbe essere un business controllato dalle istituzioni o dalle grandi etichette. Soprattutto, non va disperso il nostro spirito di ribellione: dobbiamo rimanere sempre, in qualche modo, dei rinnegati». Son propositi da poète maudit, di cui la Francia è culla storica e abbeveratoio ambìto. Non a caso, lei ne è stata subito calamitata. «Ho cominciato a sentirmela nella pelle quando ancora non vi avevo messo piede. A sedici anni ho scoperto il volto di Arthur Rimbaud diciassettenne, bello come un giovane Bob Dylan: entrambi miei miti giovanili, insieme ai Rolling Stones. Rimbaud è per me una rockstar in anticipo, un anticonformista, pronto a fuggire la mediocrità delle sue radici, un mago che torce parole e grammatica per trascendere il mondo. Più che l´opera, è la sua vita, il suo "amore cerebrale" che mi ha conquistato. Ma già prima di Rimbaud, ragazzina, avevo promosso a mie divinità, appiccicandone con puntine le facce sulle pareti della mia camera, Giovanna d´Arco, Jean-Paul Sartre e due attrici, Anouk Aimée, con i suoi occhialoni scuri in La dolce vita (per quanto tempo ho desiderato avere anch´io il suo occhio nero!), e Jeanne Moreau, la mia preferita: quando la si vede attraversare la strada sullo schermo, si capisce subito che deve avere avuto almeno cento uomini nella sua vita!». Se si vedesse lei sullo schermo, che cosa direbbe? «Ma io, fin da bambina, ho avuto l´impressione d´uscire da un film: in bianco e nero. Mi figuravo d´essere continuamente filmata a mia insaputa: mi dicevo che Bergman stava girando o che un santo, con l´occhio sull´intero pianeta, stava zoomando su di me...». Le sue affinità elettive con la Francia, a parte il cinema di Bresson, Franju, Godard, sono soprattutto letterarie: «È stata una catena, logica e visionaria. Con Rimbaud sono scivolata su Verlaine, con Baudelaire su Nerval: e Genet m´ha aperto a Burroughs... o viceversa. Anch´io ho avuto la mia Recherche, che mi sono letta tutta: che maratona. Quante volte mi sono addormentata e svegliata con Proust nel mio letto!». La Francia ha ispirato la sua poesia (Il sogno di Rimbaud), la sua fotografia (le polaroid della mostra alla Fondation Cartier di tre anni fa), la sua musica (il recente programma a Parigi, alla Cité de la musique, con il concerto con Philip Glass): «Ho persino composto una ballata in francese per Jeanne Moreau. Il mio sogno è che un giorno la canti, ma non ho mai osato proporglielo». Quando viene a Parigi, scende sempre in questo alberghino nel Marais. Come mai? «Non sente? Le campane della chiesa accanto: che meraviglia. La camera è minuscola ma le finestre danno sul campanile: mi arrivano le vibrazioni. Questo è il "mio" quartiere dal 1969: prima non c´era il Centre Pompidou, mi ci sono abituata, ma che dispiacere non vedere più gli scorci pittoreschi dove una volta cantava Edith Piaf». Anche a New York sono trapassati in leggenda i vivai della new-wave musicale, da lei frequentati agli esordi, come il CBGB´s della Bowery e il Chelsea Hotel, quartier generale di Jimi Hendrix e Janis Joplin. Rimpianti anche oltre Atlantico? «Non per la spinta autodistruttiva che ci trascinava quasi tutti e che ha anche un suo lato molto romantico quando si è giovani artisti: oggi sono contenta di aver lasciato quel periodo dietro di me e di esserne uscita viva».