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 2011  aprile 06 Mercoledì calendario

I NOMI (ITALIANI) E LE AVVENTURE DELLA CORSA A RISCOPRIRE L’EGITTO

Forse non tutti i visitatori dei musei egizi di Torino, Firenze e Napoli conoscono la storia avventurosa degli uomini che hanno contribuito a crearli. A riscoprirli ci ha pensato la mostra aperta fino al 2 ottobre nelle sale del Museo «Claudio Faina» e di Palazzo Coelli di Orvieto, intitolata «Il fascino dell’ Egitto» e curata da Elvira D’ Amicone e Massimiliana Pozzi sotto la direzione di Giuseppe Della Fina. Il titolo è preso in prestito da un volume di Filippo Tommaso Marinetti, che nel 1933 era tornato nella sua terra di origine e ne aveva raccontato il «fascino»: «Ritornavo dopo molti anni dinamici e creativi verso un punto di contemplazione: il mio Egitto natale. Da tempo mi chiamavano i suoi cieli imbottiti di placida polvere d’ oro, l’ immobile andare delle dune gialle, gli alti triangoli imperativi delle piramidi e le palme serene che benedicono il grasso padre Nilo». Il sottotitolo della mostra, che recita: «Il ruolo dell’ Italia pre e post-unitaria nella riscoperta dell’ antico Egitto», la inserisce nel calendario delle celebrazioni per i centocinquant’ anni dell’ Unità. Quindi una esposizione con un doppio percorso: da una parte i 250 reperti archeologici, tra cui molti di notevole importanza, raccontano i tremila anni della civiltà egizia; dall’ altra, disegni, manoscritti e foto d’ epoca documentano la «corsa all’ Egitto» di studiosi e avventurieri italiani tra l’ Ottocento e i primi del Novecento. Si incontra il pisano Ippolito Rosellini, che percorse l’ Egitto con Jean-François Champollion e insieme a lui decifrò nel 1822, grazie alla stele di Rosetta, la scrittura geroglifica. Il padovano Giovanni Belzoni, che fu il primo ad entrare nella piramide di Chefren e nel tempio rupestre di Ramesse II ad Abu Simbel, trovò l’ ingresso delle sontuose tombe nella Valle dei Re e mise insieme, per il suo committente Henry Salt, il nucleo fondante della collezione egizia del British Museum. Donò anche due statue della dea Sekhmet alla sua città, oggi esposte nel museo archeologico degli Eremitani, e ispirò all’ amico Giuseppe Capelli la famosa sala egizia del Caffè Pedrocchi. Fu ancora Belzoni a condurre le trattative tra i Savoia e il piemontese Bernardino Drovetti, console di Francia in Egitto, la cui raccolta andrà a costituire il nucleo primario del museo egizio di Torino. Legato al consolato austriaco fu invece Giuseppe Nizzoli, il quale tra il 1818 e il 1828 raccolse così tanti reperti che ne vendette una parte agli Asburgo (oggi conservati a Vienna), una parte al granduca di Toscana Leopoldo II (confluiti nel museo egizio di Firenze), un’ altra al pittore bolognese Pelagio Palagi (oggi al museo archeologico di Bologna), e infine una parte al marchese Luigi Malaspina (oggi al castello di Pavia). Si possono scorrere i taccuini di Carlo Vidua, che schizzando piante di templi e tombe si spinse a sud fino in Nubia, e le memorie del navigatore Giovanni Battista Caviglia, che nel 1817 liberò la Sfinge dalla sabbia, misurò le dimensioni delle piramidi e nel 1822 scoprì il colosso di Ramesse II a Melfi. Si rievocano le vicende di Luigi Vassalli, pittore, patriota risorgimentale e poi assistente dell’ egittologo Auguste Mariette al museo del Cairo; di Ernesto Schiaparelli, che scoprì la tomba di Nefertari e la sepoltura dell’ architetto reale Kha. E infine di Giovanni Barracco, finanziatore dell’ impresa dei Mille, parlamentare nel 1861 e collezionista di reperti egiziani oggi conservati a Roma nel museo che porta il suo nome.
Lauretta Colonnelli