Beatrice Raspa, Libero 16/04/2011, 16 aprile 2011
«NON VOGLIO FINIRE COME HINA» PAKISTANA SPARITA DA 15 GIORNI
Altezza e fisico da indossatrice. Carnagione olivastra.
Capelli ramati. Occhi da gatta. In una parola: bellissima. Di una bellezza sfolgorante. Impossibile non notarla, a dispetto dell’abito tradizionale indossato, lungo ai piedi, e il foulard sul capo. Così Jamila, 19 anni, studentessa pakistana di Brescia, ha una sfilza di corteggiatori. A scuola, malgrado il temperamento ritroso, è una celebrità. Un grosso problema per la famiglia, che per questo le impedisce di frequentare le lezioni. Da due settimane non la si vede in classe. Pare sia segregata in casa, con lo spettro di essere spedita in Pakistana sposare un uomo sconosciuto. «Denunciare? E come faccio? – si è sfogata la ragazza piangendo con una insegnante dell’istituto, un professionale in città, il giorno prima di sparire dalla circolazione –. Lei lo conosce il caso di Hina Saleem, vero? Non vorrei mai fare la stessa fine».
Tutta colpa della troppa avvenenza, insomma, che le calamita addosso gli sguardi dei maschi. Una condanna per Jamila, allieva modello ma pluriripetente – è maggiorenne, e frequenta la Prima – in quanto habitué dei ritiri forzati. Eppure chi la conosce, insegnanti e compagni, la descrive come tutt’altro che ribelle, che gira in compagnia di altre ragazze proprio per evitare di essere notata o avvicinata. «La massima esuberanza che può essersi concessa è quella di aver alzato lo sguardo da terra», ipotizza la prof depositaria dello sfogo. Una storia, questa, venuta alla luce grazie a un appello scritto da F.M., docente di Italiano e Storia, in una lettera a un giornale locale, Bresciaoggi.
Jamila infatti si era confidata con le amiche – alcune ora le mandano le ricariche telefoniche sul cellulare per evitarle l’isolamento – lamentando i problemi in famiglia. I fratelli, addetti alla sua sistematica sorveglianza fuori dall’istituto, avrebbero riferito a casa dei numerosi apprezzamenti suscitati tra gli studenti.
«Ci incontravamo spesso la mattina presto, un attimo prima dell’inizio delle lezioni – racconta Miryam, 15 anni, marocchina, parlata bresciana ma capo coperto dal hijab, in ansia per la compagna. Lei, orfana di padre, mi diceva di essere in contrasto con la matrigna. Usciva da casa presto per evitare di incontrarla. Litigavano per i vestiti, per il suo aspetto. Tremava all’idea di doversi sposare con un uomo che non le piaceva». A scuola, 890 allievi di cui quasi 300 una babele di immigrati, confermano: «I problemi maggiori li abbiamo con le ragazze pakistane. Sono sorvegliate a vista dai familiari, che non di rado vengono qui a fare le ronde», ammette il preside.
Donne tenute al guinzaglio, su cui non si può alzare gli occhi. Che trovano nelle lezioni l’unica possibilità di procacciarsi “l’ora d’aria”. «Jamila non è un caso isolato – continua il dirigente –. Ma più di prendere a cuore le situazioni che possiamo fare? È maggiorenne. È lei che deve denunciarei suoi». Per la comunità dei connazionali – oltre 14mila tra Brescia e provincia, l’etnìa più rappresentata in città – il ritiro dalle lezioni è “esagerato”. Ma certo motivato: «Noi siamo musulmani – precisa il portavoce dei pakistani, Sajed Shah – abbiamo delle regole. I corteggiatori a un padre non piacciono. Un ragazzo che vuole una ragazza deve avere il consenso della famiglia di lei. Però non è giusto togliere da scuola una figlia. Bisognava sorvegliarla meglio».
Il caso, intanto, sta attirando l’attenzione delle istituzioni pakistane in Italia: nella giornata di ieri il console del paese asiatico si è recato in questura a Brescia per avere notizie su Jamila.
Beatrice Raspa