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 2011  aprile 16 Sabato calendario

Corriere della Sera, sabato 9 aprile Saldi _Zarzis (Tunisia) Il battello è quasi al completo: 280 «prenotazioni» per la partenza all’alba, rotta su Lampedusa

Corriere della Sera, sabato 9 aprile Saldi _Zarzis (Tunisia) Il battello è quasi al completo: 280 «prenotazioni» per la partenza all’alba, rotta su Lampedusa. La macchina dell’immigrazione clandestina, per ora, non si ferma. Anzi l’accordo sulla «gestione dei flussi» tra Italia e Tunisia sembra spingere le organizzazioni ad aumentare i giri. F. è uno dei trafficanti che presidia il porto di Zarzis. Chiede l’anonimato e poi comincia a raccontare: «Ho saputo che i migranti partiranno da qui fino a lunedì prossimo, poi si fermerà tutto». E ancora: «Qui stanno finendo i battelli. Ce ne sono ancora cinque». Ecco perché «i padroni» cominciano a comprare fuori piazza, risalendo lungo la costa fino a Gabes, Sfax, Monastir. Prezzi più bassi, tempi più stretti, meno barche: sembra quasi la stagione dei saldi. Si vedrà se saranno davvero quelli di fine stagione. Intanto le auto a noleggio dei trafficanti (tutte «Renault Symbol» color grigio) continuano a rastrellare quel poco di «clientela» rimasta a Zarzis. I 10-15 boss del mercato stanno mettendo sotto pressione la rete degli intermediari, da Nord a Sud. Telefonate continue, Facebook e alla fine contatti diretti sul posto per mandare all’avventura altri giovani, tutti disperatamente spavaldi e irrimediabilmente spaventati. Come Nassef Mejeri, 21 anni, e Anis Khelifi, 23. Si sono fatti insieme oltre 600 chilometri in pullman per lasciarsi alle spalle il villaggio di Gammarth, sulla costa più ricca (ma evidentemente per pochi) a nord di Tunisi, e aspettare la notte in un rustico ammacchiato tra le ville e i grandi alberghi di Zarzis. Sono nella lista dei partenti anche se non hanno messo insieme la somma richiesta per il «passaggio»: 900 euro, quasi la metà rispetto a un mese fa. Nassef, che lavora a bottega da un meccanico per biciclette a 7 euro e mezzo alla settimana, ne ha solo 300; Anis, che invece non fa niente, ma ha una parentela più solida alle spalle, si presenta con 400 euro. Il «passeur F.» li ha convinti a provare lo stesso e ora è certo che partiranno insieme con altri undici suoi «clienti» in arrivo da Tunisi, alcuni addirittura con il volo per Djerba del pomeriggio. Un altro carico di tunisini, «assistito» come sempre da 30-40 galoppini armati di machete e bastoni, starebbe per lasciare il porto dei pescatori. Qualcuno li fermerà? Lo Stato maggiore della Difesa italiana ha annunciato che, da ieri sera, la corvetta Minerva ha avviato «le operazioni di sorveglianza e di monitoraggio delle acque territoriali tunisine», appoggiato da un aereo ricognitore. Da parte loro, le forze dell’ordine locali hanno tentato qualche timida sortita subito dopo l’accordo con l’Italia. La polizia ha perquisito alcune casa-rifugio; due-tre jeep della Guardia nazionale si sono affacciate sulla spiaggia. Poco altro, in verità. Ma c’è una strana inquietudine che attraversa la città. Voci contraddittorie, che cambiano come il vento di queste ultime ore: il freddo Maestrale (fermi tutti, arrivano i controlli) si mescola alla brezza da Sud-Est che pialla le onde (tutto tranquillo, si può salpare). In realtà i militari hanno abbandonato i presidi in città da tre settimane e da allora non si sono più visti, mentre al largo l’unica fregata pensa solo a sorvegliare la linea di confine con la Libia. Il porto è agibile come il parcheggio di un supermarket, sia di giorno che di notte. Sulla banchina più riparata sono ormeggiati i soliti due motoscafi della dogana che danno il cambio alle quattro-cinque motovedette dalla Guardia marina nazionale per un pattugliamento poco più che simbolico, come ammettono gli stessi gendarmi (ovviamente senza esporsi). In più, riferisce ancora il «passeur F.» la corruzione della polizia è parte integrante del sistema. Gli aneddoti si sprecano e il «tariffario» ha la stessa popolarità dei vecchi tabelloni dei gelati. Cento-duecento euro per il via libera a un’auto sospetta (e a quelle dei «passeur» ormai manca solo la scritta «sono un trafficante» ); mille-duemila euro per non disturbare le operazioni di imbarco e così via. D’accordo, è giusto registrare tutto, ma con la massima cautela. Anche perché a Zarzis è facile finire fuori strada: il commercio delle notizie è vorticoso e spesso insidioso. Ieri, per esempio, ha tenuto banco la storia del peschereccio con 180 immigrati riaccompagnato in rada dalla Guardia costiera. Alla fine, però, si è scoperto che il barcone era stato bloccato da una burrasca e non dalle vedette tunisine. Tuttavia la sigla «MO579» marchiata sullo scafo ha incuriosito parecchio i pescatori impegnati a dipanare le nasse sulla banchina. MO come Monastir: la barca è stata immatricolata 350 chilometri più a Nord, in una delle città più frequentate dai turisti. La prova che i trafficanti vogliono rilanciare. Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, domenica 10 aprile Io, malmenato dai trafficanti sulla spiaggia di Zarzis Il telefono, il maledetto telefono. Anzi no, vogliono le foto, le stramaledette foto. Ma quanti sono? Il primo affianca la nostra auto con uno «scooterone». Ha un bel cappellino azzurro, ma non una bella faccia e quando ci taglia la strada vedo che Mouldi, la fraterna guida tunisina che mi accompagna dal 12 febbraio, smette di ridere. No, allora c’è proprio qualcosa che non va. Sono da poco passate le tre del pomeriggio di sabato 9 aprile, festa dei «martiri tunisini», caduti nella prima rivolta contro la Francia (1938). A Zarzis ci sono trenta gradi: sulle spiagge passeggiano pochi turisti. A un certo punto accade una cosa mai vista nell’ultimo mese e mezzo: due jeep della Guardia nazionale si inoltrano nei sentieri sterrati lungo la costa. Fa caldo, ma non è un miraggio. Dove vanno? Proviamo a ragionare. La giornata è cominciata presto. Alle 6 dal porto dei pescatori ha preso il largo una barca con 280 clandestini e, ancora una volta, non si è vista una divisa che fosse una a contrastarli. E allora questi della jeep che cosa stanno cercando adesso? Un paio di telefonate e siamo in macchina, una Renault Symbol grigia presa a noleggio. A Zarzis ce l’hanno solo i trafficanti e i giornalisti (per il momento le due categorie sono ancora abbastanza distinguibili). In una strada sabbiosa ci sta aspettando un amico pescatore, fidato e sperimentato: Mouldi lo conosce da una vita. Ci sentiamo tutti tranquilli e in piena sicurezza. È vero, nei giorni scorsi, l’aria si è fatta pesante per i giornalisti. In mattinata veniamo a sapere che gli inviati del Tg1, Marilù Lucrezio e l’operatore Stefano Belardini, erano stati ancora una volta minacciati, mentre tornavano instancabili sulla battigia a riprendere «scene di ordinario traffico di esseri umani nella Tunisia meridionale». E la sera prima Chiara Giannini, un’intraprendente collega che lavora per il quotidiano Libero ci aveva fatti preoccupare raccontandoci di un incontro pericoloso con due loschi figuri che volevano soldi in cambio delle foto scattate dal suo gruppo. E adesso tocca a noi. Quelli che ci hanno bloccato sono trafficanti, poco importa se scafisti, intermediari o semplici galoppini del «servizio sicurezza». Conta che sono i padroni assoluti della spiaggia, che sono sempre più nervosi, forse perché i «clienti» cominciano a scarseggiare, forse perché hanno sentito dire che l’Italia rispedirà indietro gli immigrati. Vanno per le spicce. Vogliono il telefonino, vogliono vedere se ho scattato delle foto. Ho appena il tempo di allargare lo sguardo: alle nostre spalle c’è una fila di ville e rustici palesemente abbandonati. Sono le case-rifugio degli immigrati clandestini? Forse i militari sono venuti a controllarle: già ma dove sono finiti i fuoristrada che avevamo incrociato due minuti fa? Spariti. Uno spintone mi richiama alla realtà. «Il telefono, ti ho visto, hai fatto le foto, dammelo, fammi vedere», è un francese smozzicato che mi investe insieme alla saliva di una piccola folla rabbiosa. Arrivano a grappoli, ma il telefonino non lo mollo. Forse sbaglio, ma penso che lo farebbero a pezzi e poi farebbero qualcosa del genere anche a noi. Dobbiamo, invece, dimostrare che siamo «innocenti», che non abbiamo fatto alcuna foto (cosa vera per altro per un elementare principio di cautela). Parlo, cerco di prendere tempo. Ma mi vedo davanti una testona rasata piantata sopra un bisonte che viene verso di me muovendosi come un boxeur, saltella da un piede all’altro e accompagna bene con le spalle. Guarda che situazione, ci mancava solo questo che crede di essere Joe Frazer. Per fortuna (è una legge della natura), anche il branco più ottuso è guidato da un cane pastore. Il nostro indossa un maglione bianco e ha l’espressione civile del 99,99% dei tunisini che abbiamo conosciuto e apprezzato nelle ultime settimane. Il bisonte, intanto, con una mossa a sorpresa si attacca ai miei pantaloni di cotone e li strappa fino all’altezza del ginocchio. Gioco la mia carta, mi rivolgo al giovane in maglione bianco e propongo: «Andiamo solo io e te là in fondo e ti faccio vedere che non ho fatto foto». È andata. Cinque minuti dopo siamo in macchina. Solo ora mi accorgo che Mouldi ha preso una manata in faccia e si tiene la guancia. Ma, svoltato l’angolo piano, piano riprende a sorridere. Meno male, va. Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, lunedì 11 aprile Il business scafista: 20 milioni in tre mesi - Zarzia Con i due-tre barconi di immigranti dati in partenza tra ieri e oggi i trafficanti di Zarzis incasseranno un po’ meno del solito. Una cifra complessiva intorno ai 10 mila euro. Ma dal 14 gennaio a oggi, il giorno nello stesso tempo della rivoluzione dei ciclamini e della partenza del primo battello per Lampedusa, il fronte del porto tunisino ha messo le mani su almeno 18-20 milioni di euro. L’equivalente del fatturato bimestrale di una media impresa europea, ma da queste parti una somma in grado di scompaginare il fragile equilibrio socioeconomico, costruito su una trentina di grandi alberghi per il turismo «tutto compreso», il traffico di benzina con la Libia (ora fermo), un po’ di pesca, qualche spezzone di agricoltura e un pulviscolo di attività commerciali a basso rendimento. Il «business clandestino» è cominciato in modo artigianale: una decina di pescatori-scafisti pronti a ritornare al vecchio «mestiere» ; un po’ di ragazzotti con precedenti penali per reati minori. Insomma un’organizzazione elementare che la polizia avrebbe potuto smantellare, se solo avesse esercitato un centesimo dell’ordinaria repressione sperimentata nei 23 anni del regime di Ben Alì. Forse è venuto il momento di chiedersi perché non lo ha fatto e non lo fa. Qualcuno assicura che i trafficanti abbiano messo a libro paga le pattuglie della guardia costiera. Altri ritengono che siamo già nella «fase due»: vecchi arnesi del regime, con o senza divisa, si starebbero riciclando nella mafia nascente di Zarzis. È chiaro che ai vertici e anche nei livelli intermedi della filiera si sono insediati personaggi di ben altra caratura, rispetto agli scafisti del debutto. C’è chi parla di criminali venuti dalle grandi città (Sfax, forse anche Tunisi), chi di vecchi immigrati rientrati per entrare nell’affare. Sta di fatto che solo un mese e mezzo dopo la «banda dei pescatori» è diventato un clan (o un cartello di cosche) che può contare almeno su 200-300 dipendenti fissi. La produttività e l’efficienza sono aumentate con tassi di crescita alla cinese. Dopo quel primo peschereccio del 14 gennaio sono salpate da qui, a voler stare bassi, almeno altre 100-150 imbarcazioni, con oltre 15-18 mila ragazzi, ciascuno dei quali ha pagato, in media, 1.300-1.500 euro. A queste cifre si arriva incrociando i dati ufficiali degli sbarchi tunisini a Lampedusa, le stime informali dei comandi militari e delle capitanerie di porto di Jerba e Medenine, e, infine, mescolando il tutto con il fiuto dei vecchi pescatori (neutrali) di Zarzis. Con venti milioni di euro nella Tunisia meridionale potrebbero campare (bene) per un anno intero 3.300 famiglie o 15 mila cittadini tunisini. Certo, «la linea di assemblaggio» si è allungata: intermediari, galoppini del servizio d’ordine, trasportatori, oltre ai marinai incaricati di procurarsi barche lungo tutta la costa della Tunisia, perché quelle di Zarzis stanno finendo. Ma le risorse raccolte dai trafficanti si stanno concentrando in pochi nuclei pericolosamente fuori controllo. La prova? I «soldati» dei clan per ora sono armati selvaggiamente alla buona: coltelli, bastoni, machete, qualche vecchio fucile Steyr sottratto all’esercito nei giorni della rivoluzione. Ma, come dimostra la storia di tutte le mafie, i criminali amano comprare armi con lo stesso gusto con cui le signore di ogni età acquistano un paio di scarpe. Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, martedì 12 aprile Zarzis e la notte di scontri Gli scafisti in rivolta mettono in fuga le guardie - Tunisi «Venite, hanno preso il capitano». E loro vengono, (anche se ormai sono le due di notte), armati di bastone, di coltelli e soprattutto delle peggiori intenzioni. Perché deve essere chiaro: i trafficanti di Zarzis non si fermano davanti a nulla, neanche al cospetto della Guardia nazionale marina, uno dei pochi frammenti di legalità sempre più approssimativa nella capitale dell’immigrazione clandestina. Ieri mattina le testimonianze di varia provenienza restituivano la descrizione prima di un assedio, poi di una vera battaglia, o meglio di una sommossa. I militari hanno sparato in aria, ma non ce l’hanno fatta a tenere testa ad almeno 200 (e forse anche più) uomini scatenati. Alla fine sono stati costretti a una fuga scomposta, a lasciare indietro un pick up incustodito che gli inseguitori hanno sollevato di peso e gettato in mare dalla banchina più corta del porto. Per quanto è stato possibile verificare (le autorità militari qui non parlano per definizione) non ci sarebbero stati feriti. Ma l’organizzazione che governa la rotta clandestina Zarzis-Lampedusa si è esibita in un’inquietante prova di forza. Sabato scorso, 9 aprile, si era capito a quale livello fosse arrivata la loro capacità di controllo del territorio. Ed è a quel pomeriggio che bisogna tornare per ricostruire l’antefatto essenziale degli scontri della notte tra domenica e lunedì. Verso le 15 un barcone con a bordo almeno 160 immigrati rientra in rada: è in panne. La Guardia nazionale marina (l’equivalente della nostra guardacoste) è stata avvisata e l’unica motovedetta ormeggiata nel porto si stacca dalla banchina per andare a controllare. Nello stesso tempo le «sentinelle» dei trafficanti hanno già dato l’allarme e i galoppini del «servizio d’ordine» accorrono in massa, con macchine e «scooteroni». Si scatena una caccia agli eventuali testimoni indesiderati (fotoreporter e giornalisti). A tarda sera sembra tutto finito e il «carico umano» del battello viene riportato a terra. Questa volta, però, i gendarmi non possono fare finta di niente e il giorno seguente, domenica, procedono all’arresto del capitano della barca e del «capocommessa». Alle undici di sera «una delegazione scelta» di trafficanti si presenta al presidio, di fronte allo spiazzo adibito al rimessaggio delle barche. Tre parole e sono già alle minacce. I militari tengono il punto. Si va avanti per una buona mezz’ora, dopodiché il più creativo dei criminali si dirige verso la jeep della Guardia nazionale parcheggiata fuori. Che cosa ha visto? La prova della penosa sciatteria in cui versano le forze dell’ordine nel Sud della Tunisia: un fucile dimenticato sul sedile posteriore. Facile indovinare dove sia finito un attimo dopo. E lì la sovranità dello Stato lascia il posto al suk. I «passeur» propongono: vi ridiamo l’arma (a quanto pare era scarica) e voi lasciate andare i nostri. Gli uomini in uniforme accettano lo scambio, ma una volta rientrati in possesso del vecchio Steyr si rifiutano di «liberare i prigionieri». Forse pensano di aver vinto con questa furbata puerile. Ma l’avanguardia dei trafficanti chiama rinforzi: squadracce di almeno 200 bastonatori si concentrano davanti al posto di guardia. Qui le testimonianze si fanno più confuse e contraddittorie. Forse sopraggiungono anche altre decine di militari. Di sicuro si sentono raffiche di mitra sparate in aria. Ma a dover fuggire sono tutte le divise verdi. Alle loro spalle i vincitori danno fuoco a un battello sequestrato. Così, per marcare il territorio. Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, mercoledì 13 Aprile «La Ue insista con Tunisi ma non lasci sola l’Italia» - Tunisi Più pressione su Tunisi, per mettere un freno al conflitto a catena tra Stati europei, innescato dai barconi di immigrati in rotta verso Lampedusa. Ma anche più «solidarietà» con l’Italia, perché «le preoccupazioni suscitate dall’immigrazione legale» vanno condivise da tutti gli Stati membri della Ue. Il presidente della Commissione europea José Manuel Durão Barroso ha incontrato ieri a Tunisi, nel corso di una visita lampo, il presidente della Repubblica ad interim Fouad Mebazaa e il primo ministro del governo provvisorio Béji Caïd Essebsi. Il numero uno della Commissione si impegna a costruire un legame più stretto con la Tunisia. Ma in cambio chiede al governo provvisorio di «lavorare insieme per risolvere il problema dell’immigrazione clandestina». Presidente Barroso, prima di partire per Tunisi lei ha ricevuto una telefonata del premier Berlusconi. Che cosa le ha chiesto? «Di insistere con le autorità tunisine perché collaborino con l’Italia per risolvere il problema dell’immigrazione clandestina». Avete parlato di rimpatri? «Di tutti gli impegni presi dal governo tunisino. L’ho fatto in modo amichevole, perché penso che le partenze illegali non facciano bene né all’Europa né alla Tunisia». Risposta? «Anche il governo tunisino vuole costruire un partenariato più ampio con l’Ue. La Commissione proporrà al Consiglio dei ministri di concedere un accesso più generoso all’importazione di prodotti agricoli di questo Paese, per esempio. Penso che ci siano margini di manovra per farlo. E cercheremo di favorire gli investimenti diretti europei. Inoltre stiamo ricalibrando gli aiuti destinati al Nord Africa. Per la Tunisia ci saranno 140 milioni per il biennio 2011-13 che si aggiungeranno ai 257 già stanziati». D’accordo. Ma lei si è presentato a questo appuntamento con alle spalle una clamorosa rottura tra i ministri degli Interni di Francia e Germania da una parte e Italia dall’altra. Qual è la sua posizione? «Non voglio entrare nelle polemiche sull’interpretazione dell’accordo di Schengen. Posso però dire che la Commissione chiede un approccio solidale al tema dell’immigrazione clandestina. E lo abbiamo detto anche nel Consiglio dei ministri in Lussemburgo. Se arrivano 20 mila migranti su un’isola di 6 mila abitanti, come è Lampedusa, è chiaro che si creano delle preoccupazioni. E queste devono essere condivise da tutti i Paesi europei, con un approccio solidale, non possono essere lasciate a un solo Stato membro, in questo caso l’Italia». Sì, ma su quali basi giuridiche, con quali regole? «Spero che ora tutti, anche i governi che finora sono stati contrari, abbiano compreso quanto sia necessaria una politica comune europea sull’immigrazione illegale. La Commissione lo sostiene da diversi anni. E nel Trattato di Lisbona ci sono le basi per avviare questo processo. Almeno per quei Paesi della Ue che aderiscono allo spazio Schengen (tutti tranne Gran Bretagna e Irlanda, ndr)». Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, giovedì 14 Aprile Da Sousse a Monastir, la costa blindata senza scafisti - Chott Meriem Questa volta li hanno presi. Non solo i 26 ragazzi che hanno dormito per due notti sotto le palme, confortati solo dal profumo dell’origano, a cento metri dalla spiaggia di Chott Meriem, un villaggio a 30 chilometri da Monastir. Questa volta, finalmente, i gendarmi della Guardia nazionale hanno arrestato anche l’organizzatore-pilota del barcone che avrebbe dovuto portare i giovani migranti a Lampedusa, salpando la notte di domenica scorsa, 10 aprile. Il trafficante, un marocchino di 40 anni, è tornato in prigione, da dove era fuggito nei giorni della rivoluzione tunisina, mentre stava scontando 8 anni di condanna per aver condotto al naufragio, in altri tempi, un battello con un carico di 69 persone (67 morti). Onestamente è difficile dedurre da questo episodio un significato più generale, per esempio il segnale di una maggiore vigilanza da parte delle forze dell’ordine tunisine, in virtù dell’impegno assunto con l’Italia. Le versioni sono contrastanti: c’è chi dice, per esempio, che senza una soffiata i militari non sarebbero mai arrivati. Al comando distrettuale della Guardia nazionale di Sousse, il comandante, un tenente colonnello, dopo la solita manfrina (mezz’ora di anticamera, eccetera) fa sapere che non può parlare «senza autorizzazione». E allora bisogna mettersi in macchina e guidare per 80 chilometri, attraversando praticamente tutta la storia della Tunisia moderna, passando da Hamam Sousse, la città natale di Ben Ali (il presidente deposto il 14 gennaio scorso), fino a Monastir, da dove veniva Habib Bourghiba, il padre dell’indipendenza (1956). È la striscia di terra più opulenta, almeno in superficie, con alberghi faraonici, un campo da golf da 18 buche, ville e palazzine destinate alla vecchia oligarchia locale (che sopravvive agevolmente) e a ricchi europei un po’ esibizionisti. Inevitabile il massiccio dispiegamento di polizia, Guardia nazionale, esercito e marina militare. Ma in questa fase di sofferta transizione la notizia, forse, è che tutto l’apparato di difesa qui funziona al punto da sigillare almeno una parte della rotta per Lampedusa. È sufficiente ascoltare i racconti dei pescatori lungo la costa, cui non sfuggono i movimenti invisibili dei polpi e dei tonni, figuriamoci quelli di motovedette o barconi. Prima tappa: il porto di Sousse, dove sono ormeggiati circa 250 pescherecci di taglia diversa e dove Kassem, (30 anni) molla per un attimo le reti: «Al largo ci sono sempre 5 motovedette della Guardia marina nazionale. Da qui non parte e non potrebbe partire nessuno». Via a Monastir, allora, venti chilometri più a Sud. Sul molo si appoggia direttamente la fortezza bianca della marina militare e alle spalle del piccolo scafo di Souheil, 43 anni, le mani calcificate dal sale, c’è la Scuola della Guardia nazionale. Anche qui le acque territoriali sono pattugliate a maglie strette: 6 motovedette (una ogni dieci chilometri) e 2 corvette militari. Risultato: zero imbarchi, zero trafficanti. Il viaggio finisce a Teboulba, un rumoroso e spettacolare intrico di alberi maestri, sartie, reti di ogni tipo. Mille e quattrocento barche: è il secondo porto della Tunisia (dopo Sfax). La scia dei controlli arriva fino a qui. I passeur sono spuntati subito dopo la rivoluzione, come roditori di stiva attratti da tanto bendidio. Ma le motovedette della Guardia nazionale, appoggiate da un gommone «Zodiac 110», hanno bloccato tre barconi. L’ultimo trenta giorni fa. Da allora, confida Najah, 36 anni di cui 17 anni di mare, «non ci hanno più riprovato, ma…». Forse il «ma» è quella Mercedes 350 nera, con una targa strana: «Rs» , «Régime spécial» , riservata alle auto dei vecchi immigrati tunisini di rientro in patria. Si dice che ci siano anche loro tra i «boss» dei barconi. Gli emissari del clan di Zarzis vengono a Teboulba a comprare nuovi battelli. La scelta è ampia, ma i prezzi sono già raddoppiati o triplicati. Il pescatore Najah lo spiega così: «Un barcone 100 posti oggi può costare fino a 100 mila euro». Ma purtroppo solo il linguaggio è da salone nautico.