Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  aprile 16 Sabato calendario

WALL STREET SI RICONCILIA CON L’AMERICA

Carl Levin ha i lineamenti da giudice. Con la fronte alta, i capelli bianchi con il riporto e il naso aquilino, il senatore del Michigan sembra essere stato concepito da Hollywood per il ruolo dell’inquisitore burbero e implacabile.
Negli ultimi due anni questo veterano della politica - è al Congresso dal 1978 - ha recitato la sua parte sul prestigioso palcoscenico di Washington, indagando Wall Street e le cause della crisi finanziaria.
Capo dell’autorevole comitato investigativo del Senato i cui ampi poteri furono usati sia da Joseph McCarthy per la sua caccia alle streghe comuniste negli Anni 50 sia da Robert Kennedy per attaccare la mafia un decennio dopo, Levin ha interrogato, arringato e deriso i grandi della finanza americana.
Ero nell’auletta strapiena lo scorso aprile quando, in uno scontro memorabile, Levin chiese a Lloyd Blankfein, il capo della temutissima Goldman Sachs, sei volte di fila se non fosse vero che la banca d’affari avesse «scommesso» i suoi soldi contro i propri clienti. Sotto lo sguardo marmoreo di un’aquila americana, Blankfein, accigliato e sudante, cercò disperatamente di non dare ragione all’astuto politico che lo scrutava da sopra i suoi occhiali a mezzaluna.
Questa settimana, il lavoro del comitato Levin ha finalmente dato i suoi frutti: un rapporto di più di 600 pagine, con quasi 5000 pagine di appendici e grafici.

L’obiettivo di questo mostro cartaceo è semplice: dare un nome, una faccia o quantomeno un indirizzo e una ragione sociale ai responsabili del peggiore tracollo finanziario del dopoguerra.

A quattro anni dallo scoppio della bolla immobiliare statunitense, l’identità delle vittime è ben nota: i lavoratori, proprietari di case e investitori che hanno perso denaro e posti di lavoro, e i contribuenti che hanno dovuto pagare il salatissimo conto. Ma dei colpevoli non si sa granché. Gli amministratori delegati di società fallite - come la Lehman Brothers, l’Aig e la Bear Stearns - sono disoccupati e un po’ meno ricchi di prima. Gli azionisti che hanno comprato banche dalle finanze ballerine senza studiarne i bilanci hanno visto i loro investimenti fare la stessa fine della neve al sole. E i cittadini incauti che hanno mentito sul loro reddito per ottenere mutui che non avrebbero mai potuto ripagare hanno dovuto abbandonare le loro ville e vendere i televisori a schermo piatto.

Ma queste sono cause quasi «naturali» del disastro. La risposta legale e giudiziaria, invece, è stata pressoché assente. E’ vero che la Goldman Sachs ha dovuto pagare 550 milioni di dollari per risolvere accuse di frode da parte dell’authority di mercato americana, ma una multa del genere non è gran cosa per una società che l’anno scorso ha avuto entrate di quasi 40 miliardi di dollari.

Regole e leggi sono state cambiate ma nessuno è andato in galera, anzi: molti dei pezzi grossi di Wall Street sono rimasti negli uffici d’angolo dei loro grattacieli e né i regolatori né i politici hanno fatto mea culpa.

Un mio amico avvocato la chiama «la Immacolata Recessione» - una crisi che ha vittime ma non carnefici.

Su questo punto Levin e i suoi hanno fatto un ottimo lavoro. Le 600 e passa pagine non sono proprio «Guerra e Pace» ma la narrativa che ne emerge è avvincente. E’ come un thriller alla Hitchcock dove niente è come sembra.

I testi sacri di finanza ci avevano detto che il ruolo del sistema bancario è di ridistribuire risorse finanziarie dai risparmiatori agli investitori e alle aziende per oliare gli ingranaggi dell’economia. Ma le banche del rapporto Levin fanno tutt’altro. L’obiettivo dei banchieri e degli operatori che popolano il tomo dei senatori è fare soldi a ogni costo, anche se ciò vuol dire mettere a repentaglio gli utili dei clienti, la reputazione delle loro banche e, come ora sappiamo, la salute economica del Paese.

L’inchiesta dimostra che gli «incentivi finanziari» - frase molto amata da economisti che vogliono lasciare il libero mercato decidere le regole del gioco e la remunerazione dei banchieri - erano tutti sbagliati.

Invece di spingere i vari attori del sistema bancario a considerare le conseguenze delle loro azioni sul benessere della loro società - se non «della» società - e sul lungo termine, l’insistenza di Wall Street su bonus annuali e legati solamente agli utili di reparti specializzati ha creato una cultura egoistica e del breve termine. Ognuno per sé e nessuno per tutti.

I risultati sono ben noti: investitori convinti a comprare prodotti di cui non hanno bisogno, banche che usano i propri soldi per investire contro i loro stessi clienti, l’invenzione di titoli e obbligazioni sempre più complessi e meno comprensibili.

Il bello del rapporto Levin è che i nomi li fa, eccome: Goldman Sachs, Deutsche Bank e le agenzie di credit rating Moody’s e Standard & Poor’s sono, loro malgrado, i protagonisti di questa tragedia all’americana, con comprimari di lusso a Wall Street, Francoforte e nella City di Londra.

La domanda che a New York e a Washington si fanno un po’ tutti è: «What now?», «Ora che succede?». Levin ha già detto che presenterà il rapporto al ministero di Giustizia, che ha il potere di lanciare indagini giudiziarie e concludere il lavoro iniziato dai senatori.

Wall Street, però, sembra rilassata. I banchieri di Goldman con cui ho parlato si dicevano rincuorati dal fatto che Levin è l’ultimo ostacolo prima di tornare alla «normalità» di fare soldi al riparo da occhi indiscreti. Un signore di Wall Street mi ha preso in giro quando insistevo a chiedergli cosa sarebbe successo. «Ma tu non sei italiano?» mi ha detto. «Non l’hai letto il Gattopardo?».

Forse ha ragione lui. Persino il presidente Obama - lo stesso presidente Obama che un paio d’anni fa chiamò i capi di Wall Street nell’ufficio ovale e gli disse che lui era l’unica barriera tra le banche e «i forconi» - ha fatto pace con l’industria finanziaria.

Con un occhio ai fondi da raccogliere per la campagna elettorale del 2012 e un altro al fatto che, per far risorgere l’economia, le banche devono ricominciare a prestare denaro a consumatori e aziende, la Casa Bianca ha fatto capire che la guerra con Wall Street è finita.

E forse lo Zeitgeist del momento con un’economia in ripresa e la disoccupazione in calo - e l’innato ottimismo della psiche americana faranno sì che il Paese riuscirà a dimenticare il passato e a guardare al futuro senza la catarsi di processi e punizioni.

Ma prima di chiudere questo capitolo di storia americana, vale forse la pena ricordarsi di Ferdinand Pecora, un emigrato di Nicosia, vicino ad Enna, che divenne famoso come il grande inquisitore del dopo Grande Depressione. Come Levin, Pecora e la sua commissione interrogarono Wall Street e scrissero pagine e pagine per spiegare la crisi del 1929.

All’epoca, però, le parole di Pecora non rimasero lettera morta. La sua inchiesta divenne una delle travi portanti dell’architettura del capitalismo americano, dando vita a leggi e regole che crearono le basi per decenni di espansione economica Usa e trasformarono New York nel centro mondiale della finanza.

Se un emigrante siciliano è stato capace di rompere con il gattopardesco desiderio di non cambiare nulla dopo una crisi devastante, un Presidente il cui slogan era «sì, si può!» dovrebbe essere capace di fare lo stesso.