FEDERICO RAMPINI, Repubblica 15/4/2011; enrico franceschini , Repubblica 15/4/2011;, 15 aprile 2011
2 articoli - AIUTO SI E’ RISTRETTA LA CITTA’ - Era una megalopoli-ameba, cresciuta cementificando una delle aree più vaste del mondo
2 articoli - AIUTO SI E’ RISTRETTA LA CITTA’ - Era una megalopoli-ameba, cresciuta cementificando una delle aree più vaste del mondo. Vuole reincarnarsi in una nuova creatura: 11 villaggi a misura umana, collegati fra loro da "corridoi verdi" generati dalla ri-forestazione. Ha cominciato questo fantastico esperimento Detroit. Ora la studiano e la imitano Cleveland e Kansas City, Flint e Youngstown. E il nuovo trend varca l´oceano, interessa Bilbao e Lipsia. Tutte città unite da una "sciagura" comune, all´origine, che adesso si trasforma in opportunità. La deindustrializzazione, lo spopolamento, il declino. Poi lo scatto verso una nuova vocazione, la voglia di rinascere che imbocca strade eccitanti, un tempo impensabili: dall´agricoltura biologica ai musei all´aperto, dalla "devoluzione" di aree demaniali al paradiso fiscale. Come ti restringo la città. È la nuova sfida dell´urbanistica post-industriale: si possono ridisegnare in più piccolo strade, scuole, servizi pubblici quandotanta popolazione se n´è andata? Fa da stella polare il caso estremo di Detroit, la città che ha perso due terzi della sua popolazione negli ultimi 40 anni, ma lo stesso problema si pone in altre città della «cintura della ruggine» come Flint nel Michigan resa celebre dal documentario di Michael Moore sulla crisi della General Motors, o Youngstown nell´Ohio. Rischiavano di diventare le nuove ghost-town, città-fantasma come quelle abbandonate dai cercatori d´oro in California alla fine dell´Ottocento. Invece si trasformano in laboratori estetici, sociali, nuovi modelli di vita e di valori. È una sfida imprevista, la pianificazione della ritirata degli spazi urbani e di tutto quello che chiamiamo «città». Cercando di evitare che le zone abbandonate diventino aree di degrado, miseria, criminalità. «Per cominciare - spiega l´urbanista Jennifer Bradley che alla Brookings Institution dirige il Metropolitan Policy Program - abbiamo bisogno di acquisire una mentalità completamente nuova. La crescita fisica, l´espansione materiale, la dilatazione degli spazi occupati e costruiti, è stata il più potente dei miti americani. Ora l´America ha bisogno di darsi un altro mito. Io uso il termine un-growth». Vuol dire a-crescita, non ha il connotato negativo della decrescita, che alle orecchie americane suonerebbe disfattista, una ritirata ingloriosa. È comunque una rivoluzione copernicana, per la nazione ottimista e orgogliosa che ha inventato i grattacieli, le giungle d´asfalto, le megalopoli-piovre con i tentacoli fatti di suburbs residenziali e shopping-mall. «L´a-crescita non è una resa - aggiunge la Bradley - è una fase dell´evoluzione urbana. È un progetto che inizia adesso e ci occuperà per decenni». Quando dopo la Grande Depressione degli anni Trenta il New Deal rooseveltiano trasfigurò la fisionomia dell´America con i suoi cantieri titanici, le grandi opere infrastrutturali come il ponte del Golden Gate a San Francisco, più le reti autostradali, i quartieri di case popolari, «tutto era un progetto tecnocratico calato dall´alto, rapido e brutale - dice la Bradley - mentre il processo inverso sarà una riorganizzazione corale, democratica, condivisa dal basso». La scintilla iniziale di questa nuova rivoluzione americana non poteva accendersi che a Detroit. Nessun´altra città al mondo ha subìto una fuga di queste proporzioni, se non per olocausti nucleari, bombardamenti a tappeto, o l´improvviso tracollo di una civiltà (le capitali Maya). «Per chi non c´è dentro è difficile immaginarsi - dice il demografo William Frey - cosa significa passare da oltre due milioni di abitanti ai 713.777 dell´ultimo censimento (2010)». Sono sparite da Detroit 150.000 persone a decennio, l´equivalente di una media città italiana, fra gli anni Sessanta e gli anni Novanta. «Poi è arrivato il tracollo vero - aggiunge Frey - cioè meno 237.000 abitanti, solo negli ultimi dieci anni. Neppure New Orleans dopo l´uragano Katrina ha sofferto così». All´origine c´è la crisi dell´automobile, che ha concentrato il suo impatto distruttivo nella capitale mondiale di questa industria. Proprio per questo però il sindaco di Detroit David Bing si rifiuta di usare per la sua città lo stesso termine - downsizing, ridimensionamento - che indica le ristrutturazioni industriali e i salassi di occupazione. Ecco allora il right-sizing: non un aggiustamento all´ingiù, ma la ricerca della "dimensione giusta". Nessuno vuole edulcorare la durezza del dramma sociale: «Detroit - dice il sociologo Andrew Beveridge - è l´epicentro dell´erosione della base industriale dell´Occidente. Siamo al 27,8% di case vuote, tra gli immobili disertati dagli inquilini, quelli messi in vendita, o pignorati». È chiaro che un fenomeno di questa portata non può essere governato dalle forze del mercato. «Questo è uno dei problemi fondamentali - osserva - ogni progetto può avere reddività privata e autofinanziarsi, al contrario riprogettare una città su dimensioni ridotte è un´operazione che avviene in un vuoto di mercato. Demolire una singola casetta monofamiliare costa diecimila dollari, e quello è solo il primo passo». Il sindaco Bing ne ha già designate 12.000 per la demolizione immediata. Fare tabula rasa in certi quartieri è essenziale: altrimenti se ne impadroniscono gang di narcos, violenza e degrado, e addio progetti di rinascita. Il percorso successivo è già iniziato con una convergenza di forze pubbliche e private: il mecenatismo delle grandi famiglie della borghesia industriale, le ong filantropiche, le associazioni di quartiere, le università, le chiese. Una coalizione ben rappresentata per esempio nella non-profit Community Development Advocates of Detroit. Il percorso è quello riassunto in cinque punti da Michael Pagano, rettore della facoltà di Urban Planning alla University of Illinois, Chicago. Primo, i giardini in città: non solo a livello amatoriale ma vere e proprie fattorie urbane, per rifornire di ortofrutta e fiori i ristoranti e i supermercati di quartiere. Secondo: parte degli edifici rasi al suolo possono essere donati dalla città a chi ci abita vicino, per creare ricchezza e base imponibile dove oggi ci sono relitti abbandonati. Terzo: l´arte all´aperto, già oggi in piena fioritura, può trasformare interi quartieri in musei senza muri. Quarto: la riforestazione crea corridoi verdi a basso costo di manutenzione, per collegare tra loro le parti che rimarranno abitate e vivibili. Quinto: ripensare tutta la struttura delle imposte urbane, per disincentivare l´abbandono, premiare gli usi innovativi e originali. La macchina della burocrazia comunale deve adattarsi a rimpicciolire a sua volta, fornirà meno servizi perché la popolazione è ridotta, calibrandoli meglio sui nuovi bisogni. A questo si aggiunge la spinta di un nuovo motore di occupazione: i centri ospedalieri e la ricerca biomedica nei policlinici universitari; le tecnologie dell´auto pulita incentivate da Barack Obama coi suoi programmi per la Green Economy. Il 20% del parco-auto pubbliche sarà elettrico o ibrido entro pochi anni, ha deciso il presidente, e la Volt tutta elettrica della Gm è un simbolo della nuova fase. Per attirare i talenti intellettuali che gravitano attorno a queste vocazioni avanzate, cosa c´è di meglio che offrirgli "la campagna in città"? «Riorganizzare un intero territorio urbano e rendere più vivibile la città, ma passando dall´ipertrofìa a dimensioni ridotte? È un progetto che non è mai stato applicato a una "cavia" di dimensioni così vaste», osserva l´architetto di Detroit Tom Godderis. Se l´America ritroverà l´ottimismo del suo Novecento, adattandolo alla fase dell´a-crescita, sarà un bel colpo di scena. FEDERICO RAMPINI, Repubblica 15/4/2011; "IL MIO GRATTACIELO A MISURA D´UOMO COSÌ PUÒ CAMBIARE IL VOLTO DELLE CITTÀ" - Al 45esimo piano del nuovo tettod’Europa, Renzo Piano scruta compiaciuto l’orizzonte. Siamo a metà della torre, ma già Londra rimpicciolisce sotto i nostri occhi e i confini della capitale appaiono nitidi, contornati dal verde della campagna. «Le città devono smettere di crescere a dismisura», dice l’architetto. «Devono implodere anziché esplodere. Invece di allargarsi a macchia d’olio, crescere in altezza e immaginazione». Come fa il suo nuovo grattacielo, The Shard, La Scheggia, 310 metri, 87 piani, una piramide «che accarezza le nuvole, sparisce in cielo, si smaterializza, riflettendo nelle vetrate i colori e gli umori di Londra», afferma il suo creatore. Sarà pronto a maggio, inaugurato in autunno e ben rodato per le Olimpiadi 2012, quando la metropoli presenterà un nuovo volto al mondo e il suo grattacielo più alto ne sarà il simbolo. «I grattacieli di soli uffici, che a sera si svuotano, sono luoghi tristi, misteriosi», osserva lui, casco protettivo, giacca catarinfrangente, stivaloni di gomma, passando in rassegna i 1200 operai che lavorano giorno e notte per completare questo gigante trasparente. «Invece qui abbiamo voluto costruire una città verticale, dove si mescolano uffici, appartamenti, albergo, ristoranti, osservatorio per il pubblico, ventimila persone lo useranno e abiteranno, rendendolo vivo». È costato un miliardo di sterline (1 miliardo e 200 milioni di euro), «ma quando una città ti dà qualcosa, devi ridare indietro qualcosa alla città, in cambio della licenza per il grattacielo gli investitori hanno contribuito centinaia di milioni di sterline per risanare il quartiere circostante, rifacendo strade, giardini, trasporti pubblici». Il quartiere è London Bridge, vecchia zona dei docks, un tempo teatro di Jack lo Squartatore, in procinto di diventare una nuova faccia della Londra 21esimo secolo. Eppure il principe Carlo critica le brutture del modernismo, qualcuno sostiene che lo Shard toglie spazio a una storica icona come la cattedrale di St. Paul. L´architetto sorride: «Conosco il principe e ha ragione a dire che la modernità ha eretto tanti mostri. Anche il passato, se è per questo. Ma non è una buona ragione per non costruire più nulla, per non cercare soluzioni valide e affascinanti. Ci fu gente che criticò anche la cattedrale di St. Paul, quando la costruirono, e adesso è amata da tutti perché è un capolavoro». La guarda ammirato, lì di fronte a noi, dal 45esimo piano. «Vede? Non è scomparsa, non le facciamo ombra. Al contrario, questa torre porta intensità al panorama, porta scambio tra passato e presente». Allora Londra è un modello per le città future? «È un modello perché è una moderna torre di Babele, dove si riuniscono tutte le genti della terra e riescono a comprendersi, integrarsi. Ci sono decine di nazionalità anche fra i muratori dello Shard, anch´essi rappresentano un modello». E l´urbanistica di domani? «Deve smettere di costruire periferie, altrimenti un giorno tra Milano e Torino non ci sarà più neanche un metro di campagna. E deve umanizzare le periferie esistenti, mica si possono far scomparire, tantomeno lasciarle al degrado». Come? «Creando spazi pubblici che le rivitalizzino, senza scadere nel monumentale e nel retorico, aprendo una discussione tra la modestia del vivere e l´orgoglio urbano». Un esempio? «L´Auditorium che abbiamo fatto a Roma, prima era un parcheggio, in una zona praticamente morta, ora è rinata. Stringere la cintura urbana, anziché allargarla all´infinito. Cercare vie nuove, non solo in verticale ma con una visione di quel che serve alla gente: musei, biblioteche, luoghi di socialità condivisa». Ma la maggioranza dell´umanità è urbanizzata: come evitare che le città diventino formicai? «Per cominciare obbligando la gente a prendere i mezzi pubblici e creando una rete di trasporti funzionante. Lo Shard ha solo 42 posti macchina. Perché passa di fianco a una stazione ferroviaria, due linee della metropolitana, venti di autobus. All´auto bisogna rinunciare». L´altro dilemma del futuro è l´energia, come far funzionare le nostre città senza inquinamento e sprechi? «Ci sono ricerche di lunga durata, in campo spaziale, medico, energetico, da cui nascono nuove invenzioni. Lo stesso vale con l´architettura. Un grattacielo come questo, pensato per sfruttare energia solare e consumare meno, è un passo avanti verso un futuro sostenibile». Torniamo in ascensore, su e giù: si tappano le orecchie, come in aereo. «In cima metteremo un luogo di meditazione multiconfessionale, luogo laico di raccoglimento e silenzio per tutti. Per far affiorare le affinità globali, le stesse che devono emergere nella grande città che sta intorno al grattacielo. Perché venire quassù è anche un´esperienza metafisica, è come guardare da una terrazza panoramica le tracce della vita». Linguaggio poetico, architetto. «C´è un misto di pragmatismo e poesia nel mio mestiere. La scienza di costruire ripari per l´essere umano, ma anche l´arte di dare una risposta ai sogni umani. Bisogni pratici e anche emozione. Un mestiere che affonda nell´alba dell´uomo, cacciatore, contadino e costruttore. Il "male della pietra", come mio padre chiamava l´architettura». Renzo Piano è il più prolifico architetto del mondo, vincitore del Pritzker, il Nobel dell´architettura, nella sua lunga carriera ha disegnato il Centro Pompidou a Parigi e la sede del New York Times a Manhattan, ha fatto musei, sale concerto, aeroporti, a Berlino, Sidney, Osaka. Ora, mentre finisce il grattacielo londinese, è già impegnato con altri due progetti, il campus della Columbia University a New York e la nuova biblioteca di Atene. Che consiglio darebbe a un giovane architetto, a chi seguirà le sue orme per disegnare la città futura? «Avere buoni maestri e poi mollarli, ribellarsi, il metodo migliore di trovare se stessi. Non fidarsi dell´accademia, avere il coraggio di rischiare, perché progettare è sempre un´avventura dello spirito. Infine imparare a guardare nel buio, accettare di restare sospesi tra ciò che ricordi, che sai e che puoi scoprire; tra la memoria e l´oblio, come scriveva Borges. Accettare di vivere in uno stato di ansia, perché solo dall´ansia nascono creatività, sorprese, nuova vita». Vale per il suo mestiere, architetto, ma anche per molto altro, per le relazioni umane, per l´amore? «Vale per tutto e naturalmente anche per l´amore». enrico franceschini , Repubblica 15/4/2011;