Umberto Eco, Accademia dei Lincei aprile 2011 (27/3/2011), 27 marzo 2011
Memoria e dimenticanza - Esistono due forme di censura, una per sottrazione e una per moltiplicazione o eccesso
Memoria e dimenticanza - Esistono due forme di censura, una per sottrazione e una per moltiplicazione o eccesso. Per impedire che qualcosa venga detto o ascoltato ci sono due vie: o impedire che venga appunto detto o creare rumore nel momento in cui viene detto rendendolo impercettibile. Per impedire che una informazione venga percepita come rilevante basta annegarla in un contesto di informazioni irrilevanti. Mi riferiscono colleghi attendibili che a un esame del triennio, essendo caduto il discorso non so come e perché sulla strage alla stazione di Bologna, vista la perplessità dell’esaminando ed essendogli stato domandato se ricordava a chi fosse stata attribuita la strage, colui aveva risposto: Ai Bersaglieri. Gli orizzonti della stupidità essendo illimitati, ci si sarebbero potute attendere le risposte più varie - che andassero dai brigatisti rossi ai neofascisti, dai comunisti o dai fondamentalisti arabi ai figli di Satana, ma i bersaglieri erano veramente inattesi. Io azzardo che nella mente dell’infelice si agitasse l’immagine confusa di una breccia scolpita nel muro della stazione per ricordare l’evento, e che la visione della breccia abbia fatto corto circuito con un’altra nozione imprecisa, poco più di un flatus vocis, concernente la breccia di Porta Pia. D’altra parte l’esaminando non era probabilmente rappresentativo della media dei suoi consimili e un pipistrello non fa primavera. Tuttavia l’episodio sembra epitomizzare altre esempi del difficile rapporto di moltissimi giovani coi fatti del passato. Ho letto tempo fa che, interrogati su Aldo Moro, alcuni lo dicevano capo delle brigate rosse, altri primi presidente della neonata repubblica italiana, e via dicendo, dimostrando una completa ignoranza circa cose che pure erano accadute immediatamente prima o immediatamente dopo la loro nascita. Eppure io decenne, nel 1942, sapevo che il primo ministro italiano ai tempi della marcia su Roma era stato, come me lo definiva la scuola fascista, l’imbelle Facta e sapevo persino il nome dei quadrunviri. Sarà che la riforma Gentile era stata più avveduta della riforma Gelmini, ma credo che le ragioni siano altre e siano dovute a una forma continua censura che non solo i giovani ma anche gli adulti stiano subendo circa una gran quantità di notizie, specie circa quelle sul tempo che fu – ed è pur vero che il 17 marzo, interrogati dalle Iene televisive sul perché quella data fosse stata scelta per celebrare i centocinquant’anni dell’unità, molti parlamentari e persino un governatore di regione abbiano dato le rispose più strampalate, dalle cinque giornate di Milano alla presa di Roma Ho detto censura. Ma come si può parlare di censura nel periodo in cui pare, WikiLeaks insegni, che nessuna notizia possa più sfuggire al controllo della collettività e che neppure le dittature possano celare le loro manovre e i loro problemi? Il fatto è che esistono due forme di censura, una per sottrazione e una per moltiplicazione o eccesso. E’ indiscutibile che per impedire che qualcosa venga detto e ascoltato ci sono due vie: o impedire che venga appunto detto o creare rumore nel momento in cui viene detto rendendolo impercettibile. Per impedire che una informazione venga percepita come rilevante basta annegarla in un contesto di informazioni irrilevanti. Tornando al nostro studente che accusava i bersaglieri dell’attentato bolognese dobbiamo dire che sue nozioni circa gli eventi passati erano imprecise perché nessuno gli aveva dato la possibilità di averne notizia o perché esse erano state confuse e seppellite nel contesto di troppe altre notizie circa il presente? Ecco perché oggi, a difesa dei diritti e dei meriti della memoria, vorrei intrattenermi sui diritti e i meriti della dimenticanza come molla essenziale per la vita di una cultura così come per la nostra vita personale. Il tema che vorrei svolgere è quello della cultura (nel senso antropologico del termine) come sistema per ridurre l’eccesso d’informazione. Tema dall’apparenza paradossale per ché si ritiene, ingenuamente, che la cultura di una civiltà, di un’epoca, di una comunità, sia invece un sistema per conservare le informazioni, informazioni che si perdono se quella cultura crolla e sparisce. Occorre naturalmente partire dal duplice significato della nozione di informazione, che a volte viene utilizzata seguendo il senso comune e a volte in senso tecnico. In quest’ultimo caso ci rifacciamo alla teoria matematica dell’informazione, secondo cui l’informazione è una proprietà statistica della fonte e definisce (per esempio) tutto quello che potrebbe essere elaborato con la combinazione delle 26 lettere dell’alfabeto. L’informazione, quindi, deriva da una misura di probabilità all’interno di un sistema equiprobabile. Una volta che tra tutte le possibilità consentite dall’alfabeto viene elaborata una frase specifica, entriamo nell’altro significato di informazione e ci occupiamo di quello che chiamiamo messaggio, cioè un significato che può essere trasmesso e comunicato. È chiaro che oggi parleremo di informazione in quest’ultimo senso, come trasmissione di dati di qualche interesse collettivo. All’interno di questo significato di senso comune, un’altra distinzione che dobbiamo fare è quella tra messaggio e canale. Per discutere della situazione attuale dell’informazione dobbiamo considerare due fattori: l’organizzazione dei canali rispetto al passato e il numero - non la qualità o il contenuto, che in questa sede non interessano - dei messaggi trasmissibili. Per quanto riguarda i canali, da almeno due secoli e cioè dall’invenzione del telegrafo, stiamo assistendo a una vera e propria rivoluzione e oggi sappiamo bene che in pochi secondi possiamo trasmettere un messaggio a Sidney e ricevere risposta. E se un tempo disponevamo solo di segnali di fumo, immagini o messaggi alfabetici manoscritti, oggi infiniti sono i canali mediante i quali facciamo passare informazione, dalla radio alla televisione, alla email, al telefonino per non dire di Internet e così via. Pertanto il numero dei messaggi circolanti tende a crescere in forma esponenziale. Questo flusso ininterrotto ci aiuta? Voi sapete che ormai lo specialista di una disciplina non è in grado di seguire quello che viene prodotto nel suo settore. Pensiamo per esempio alle bibliografie. Quando preparavo la tesi, formare una bibliografia voleva dire passare molti giorni in biblioteca, cercare e segnare a penna i volumi che si trovavano e alla fine di un grosso lavoro aver messo insieme cento titoli. Oggi, con Internet, lo studente schiaccia un bottone e trova 10.000 titoli di bibliografia. Qual è il problema? Primo, che se li fa vedere al professore, a quello viene un infarto perché tutti quei titoli non li conosceva nemmeno lui e per questo si incrina il rapporto di fiducia tra docente e discente. Secondo, che lo studente non solo non può leggere i 10.000 libri, ma nemmeno i 10.000 titoli della bibliografia: avere un numero tanto elevato di titoli equivale perciò a non averne alcuno. Il problema non è solo legato all’abbondanza delle informazioni, ma anche alla possibilità di selezionare la loro attendibilità. Una volta ho fatto un esperimento su un tema di cui, pur non essendo uno specialista, presumo di sapere alcune cose: ho digitato la parola “Graal” in un motore di ricerca e ho analizzato i primi 70 siti segnalati. Sessantotto di questi erano puro ciarpame, materiale neonazista o pubblicitario; uno era credibile, ma conteneva una semplice descrizione da enciclopedia del tipo Garzantina; uno conteneva un piccolo saggio preciso, ma privo di particolare interesse. Mi chiedo come possa fare uno studente a decidere quale tra questi siti dia notizie utili. La stessa cosa è successa quando ho cercato la parola “olocausto”. Immediatamente ho individuato alcuni siti di chiara ispirazione nazista e negazionista ma, se sullo sfondo non c’è una svastica, se certe posizioni sono ben camuffate, diventa molto difficile per una persona normale capire e scegliere. Ricevo quotidianamente decine e decine di libri che non potrò mai leggere e per questo ho elaborato delle tecniche di decimazione. Alcune si basano semplicemente su criteri statistici: se un libro è banale, ritroverò le stesse idee nel decimo volume pubblicato su quel dato argomento; se un libro è geniale, ugualmente troverò le stesse idee, diventate patrimonio comune, nel decimo libro sull’argomento. Pertanto ho deciso di leggere, su un certo tema, un libro ogni dieci. Altri criteri sono più sofisticati e si basano sull’esame dell’indice, della bibliografia e così via. Queste tecniche dovrebbero essere insegnate fin dalle scuole elementari e occorrerebbe aggiungere la “D” di decimazione alle tre “I” di Internet, inglese e impresa. Una volta il Centro cattolico cinematografico compilava una lista dei film per tutti, di quelli solo per adulti e di quelli sconsigliati. Il buon cattolico si fidava di questa indicazione e si comportava di conseguenza. Oggi non è possibile ipotizzare un ente capace di monitorizzare dal punto di vista dell’attendibilità tutti i siti che si occupano delle diverse discipline, perché i contenuti cambiano in continuazione e non è quindi possibile analizzarli in modo sistematico e aggiornato. Decimazione, filtraggio selezione. Come vedete il problema dell’abbondanza di informazione ci allontana dall’utopia della cultura come conservazione e ci espone al problema ben più drammatico della cultura come dimenticanza. Il nostro studente che attribuiva l’attentato di Bologna ai bersaglieri non era forse qualcuno a cui era stato detto troppo poco ma qualcuno a cui era stato detto troppo, e che non era più in grado di selezionare ciò che valeva la pena di ricordare. Aveva subito una censura per eccesso di rumore. ------------------- La cultura, intesa come memoria storica, come insieme di sapere condiviso su cui si regge il gruppo e la società umani, non è solo un accumulo di dati, è anche il risultato del loro filtraggio. La cultura è anche capacità di buttar via ciò che non è utile o necessario. La storia della cultura e della civiltà è fatta di tonnellate di informazioni che sono state seppellite. Talvolta abbiamo giudicato questo processo un danno e ci sono voluti secoli per riprendere il percorso interrotto: i greci non sapevano quasi più niente della matematica egiziana e ugualmente il Medioevo ha dimenticato tutta la scienza greca. In un certo senso, però, questo è servito alle diverse culture per ringiovanirsi partendo da zero, per poi recuperare gradualmente ciò che era stato per così dire ibernato. Altre informazioni sono andate perdute. Non sappiamo più a cosa servivano le statue dell’Isola di Pasqua, e moltissime delle tragedie citate da Aristotele nella Poetica non ci sono pervenute. Questo discorso non vale solo per le culture, ma anche per la nostra vita. Jorge Luis Borges ha scritto una bellissima novella, intitolata Funes el memorioso, su un personaggio che ricorda tutto, ogni foglia che ha visto su ogni albero, ogni parola che ha udito nel corso della sua vita, ogni refolo di vento che ha avvertito, ogni sapore che ha assaporato, ogni frase che ha letto. Eppure Funes è un completo idiota, un uomo bloccato dalla sua incapacità di selezionare e di buttare via. Il nostro inconscio funziona perché butta via. Poi, se c’è qualche inghippo, si va dallo psicanalista per recuperare quel poco che serviva e che per sbaglio abbiamo buttato via. Ma tutto il resto per fortuna è stato eliminato e la nostra anima è esattamente il prodotto della continuità di questa memoria selezionata: se avessimo l’anima di Funes saremmo persone senz’anima. E’ pur vero che è persona senz’anima anche quella che ha perduto del tutto la memoria. Se non ci fosse la memoria forse avrebbe senso la beatitudine eterna perché si smemorerebbe nella visione beatifica, ma non avrebbe senso l’inferno dove, perché le pene ci facciano davvero male, dobbiamo ricordare ciò che abbiamo fatto in vita per meritarle, altrimenti non saremmo altro che un grumo di sensazioni sgradevoli, come una mosca a cui strapassero le ali per l’eternità. Ma l’anima come memoria non è fatta di tutto ciò che ricordiamo, è fatta anche di ciò che abbiamo dimenticato, perché noi non siamo tutte le sensazioni che abbiamo avuto dalla nascita alla morte, ma solo quelle che hanno acquistato significato per la nostra crescita individuale. Ora, il World Wide Web è Funes el memorioso, anche se ogni tanto si rinnova e butta via qualcosa. La nuova biblioteca di Alessandria d’Egitto ha iniziato a raccogliere su cassette tutto ciò che appare su Internet, comprese le informazioni che successivamente vengono eliminate. Questa raccolta al massimo della sua potenzialità sarà peggio di Internet, perché avrà tutti i contenuti che ha oggi Internet insieme a quelli che sono stati filtrati con il tempo. Voi mi direte che Internet è un grande fenomeno democratico, che permette di ricevere tutti i tipi di informazione e di scegliere in modo libero, e io ho presente l’impatto che Internet ha avuto sulla società cinese, specie quella giovanile – per non parlare oggi della funzione che ha esercitato e sta esercitando sai moti dell’Africa del nord e del Medio Oriente. Mi sembra, però, di poter fare per Internet un discorso simile a quello fatto più volte a proposito della televisione: per le immense parti del mondo meno sviluppate, l’abbondanza di informazioni è certamente motore di sviluppo democratico, ma non è così per i paesi più sviluppati. Tale abbondanza, infatti, è un fattore molto democratico quando arriva in una dittatura, e sconvolge un corpus irrigidito di idee obbligatorie, ma può avere risvolti dittatoriali quando è presente in un sistema democratico. Come totalità di contenuti disponibili in modo disordinato, non filtrato e non organizzato, Internet permette a ciascuno di costruirsi una propria enciclopedia, il proprio libero sistema (o non sistema) di credenze, nozioni e valori, in cui possono essere compresenti, come accade nella testa di molti esseri umani, sia l’idea che l’acqua è H2O sia l’idea che il sole giri intorno alla terra. In teoria, quindi, si può arrivare all’esistenza di sei miliardi di enciclopedie differenti: sarebbe questa un’acquisizione democratica? Credo di no, perché la funzione di un’enciclopedia è proprio quella di stabilire cosa va conservato e cosa va buttato via, in modo che ogni confronto possa avvenire sulla base di un linguaggio comune. Affermando che Tolomeo aveva torto e Galileo ragione, l’enciclopedia esclude quei letterati folli che ancor oggi scrivono volumi per dimostrare che la terra è quadrata. Ma per rovesciare un paradigma è necessario che ci sia un paradigma da rovesciare. Se non ci fosse stata la teoria tolemaica, Copernico non avrebbe potuto sviluppare il suo sistema, cercando di contestarla, ed essendo capito da coloro ai quali si rivolgeva. Pertanto la cultura può scegliere di conservare memoria anche delle opinioni erronee, ascrivendole a un patrimonio storico con cui confrontarsi. In ogni caso le nuove idee possono essere costruite solo partendo da un’enciclopedia il più possibile condivisa, mentre con sei miliardi di enciclopedie, una diversa dall’altra, ogni comunicazione sarebbe impossibile. Se l’idea di sei miliardi di enciclopedia diverse pare irrealistica – e per fortuna lo è – vi faccio un piccolo esempio in cui la possibilità di combinare infinite informazioni può condurci a situazioni totalmente oniriche se non disponiamo di un filtro, ovvero di un criterio di scelta. Esiste un motore di ricerca tedesco, all’indirizzo www.bahn.de, che contiene tutti i dati sulle connessioni ferroviarie europee. Anni fa mi sono appassionato a questo programma e l’ho utilizzato in modo “disinteressato”, cercando di verificare quante combinazioni potevo produrre. Ho cominciato a chiedere come andare da Francoforte a Battipaglia e la soluzione è stata piuttosto soddisfacente perché, a seconda delle coincidenze, occorrevano dalle 18 alle 20 ore. A questo punto ho domandato come andare da Londra a Grosseto via Napoli. Il primo itinerario prende 29 ore ed è banale. Il secondo riesce a metterci 34 ore ma solo perché incappo in uno spo¬stamento tra due stazioni parigine. Il terzo è superbo: 26 ore, ma so¬no costretto a fermarmi a Bardonecchia, Alessandria, Nervi, Viareg¬gio, passo per Grosseto all’una di notte (ma non mi fermo) arrivo a Napoli Campi Flegrei, risalgo per Roma Ostiense e ritorno a Grosseto circa nove ore dopo. Questo è già più eccitante, dovrei portarmi dietro da leggere e un thermos - e poi chissà. Ho voluto tentare l’impossibile. Ho chiesto Battipaglia-Roscoff via Madrid. Da Battipaglia a Chambéry via Milano, poi Parigi, Madrid, Poitiers, Nantes, Rennes, Morlaix e Roscoff. Sessantasei ore di delizioso va¬gabondare. Il secondo capolavoro è stato Battipaglia-San Pietro¬burgo Witebsk (e ho avvertito un sapore chagallíano) via Madrid. Battipaglia-Parigi è ovvio, ed è ovvio Parigi-Ma¬drid, ma poi l’avventura cominciava da Madrid a Bruxelles, di lì a Or¬scha Central, sino a San Pietroburgo. Il tutto in 110 ore e 34 minuti. Altrettanto appassionante è stato Madrid-Roma via Varsavia. Qui i nomi di queste stazioni da storiella yiddish mi hanno fatto sognare: Warszawa Wschodnia, Byalystok, Czeremcha, Siedlce, Warszawa Srodmìescie,Vienna Est, Vienna Sud, e infine (come in un lampo, trascurando le minuzie di questa nostra penisola) Roma Termini. Ho trovato anche un Mosca-Istanbul via Lisieux (tre misticismi in un colpo solo) che non era male, ma meno evocativo dì quanto pensassi. Se era per divertirmi, avevo scoperto la mia droga. Come da piccolo im¬maginavo esplorazioni avventurose sopra l’atlante, tenuto sotto il banco nell’ora di matematica, ora non avrei avuto che da inseguire suoni ma¬gici, e percorrere valichi e pianure senza fermarmi più. Per stare notti e notti a viaggiare davanti al com¬puter avrei dovuto fornirmi di liquori forti, adatti ai vari luoghi che visitavo, pipe e magari narghilè, vesti impellicciate e scaldini. Forse avrei anche potuto essere testimone di un assassinio sull’Orient-Express. Avrei trovato, mi domandavo, tra una stazione e l’altra la Madonna degli Sleeping-cars, esangue e con le nari frementi, le labbra rosse come una ferita, mentre suggeva con voluttà sottili sigarette russe? Poi sono tornato alla realtà. L’esperienza era molto affascinante dal punto di vista estetico ma per chi avesse voluto veramente andare da Battipaglia a Vitebsk ci dovrebbe essere un solo percorso preferenziale, ispirato a criteri di rapidità e di economicità. Dovrei dunque operare un filtraggio mirato dell’informazione disponibile. Ed ecco la differenza tra informazione nel senso cibernetico e nel senso semantico, che delineavo all’inizio. La struttura della rete ferroviaria mi consente una informazione massimale e pertanto infiniti o indefiniti percorsi, ma l’informazione di cui ho bisogno, e che ragionevolmente posso condividere con altri miei simili, è quella per cui, onde reagire alle vertigini provocate dal sistema, che mi elenca tutte le opzioni possibili, io posso elaborare criteri di selezione. Il terrore dell’eccesso di informazione non è solo del nostro tempo. Il problema della necessità di dimenticare nasce nello stesso periodo in cui sin dall’antichità classica si elaborano le mnemotecniche onde ricordare il massimo numero di informazioni possibili (specie in secoli in cui l’informazione non era così facilmente attingibile e trasportabile come è poi avvenuto con l’invenzione della stampa, prima, e degli strumenti elettronici, dopo). Così nasce (insieme coi progetti di artes memorandi) il sogno di un’ars oblivionalis, un’arte della dimenticanza. Tutti conosciamo le mnemotecniche e cioè la tecniche elaborate da Simonide ad almeno tutto il XIX secolo, per memorizzare il maggior numero possibile di informazioni, una tecnica fondamentale per studiosi che, a differenza di noi, non disponevano di registratore, computer e Internet. Ma già Cicerone nel De oratore (II, 74) citava il caso di Temistocle, dotato di memoria straordinaria, a cui qualcuno propone di apprendere un’ars memorandi. Temistocle risponde che costui "gli avrebbe fatto opera gradita se gli avesse insegnato a dimenticare più che a ricordare (gratis sibi illum esse facturum, si se oblivisci quae vellet, quam si meminisse docuisset)", perché "per lui era preferibile dimenticare ciò che non voleva ricordare anziché conservare quanto avesse una volta udito o veduto (cum quidem ei fuerit optabilius oblivisci posse potius quod meminisse nollet, quam quod semel audisset videssetve meminisse)". Certamente il terrore dell’eccesso si moltiplica con l’invenzione della stampa, che non solo mette a disposizione una enorme quantità di materiale testuale, ma ne rende più facile l’accesso a chiunque e "induce a passare, in poco più di due secoli, dal primato della reminiscenza al primato della dimenticanza" (Alberto Cevolini, De arte excerpendi. Imparare a dimenticare nella modernità. Firenze, Olschki 2006). Filippo Gesualdo, vissuto a cavallo tra XVI e XVII secolo, nella sua Plutosofia ci ricorda che, accanto alle tecniche per ricordare, esistono anche quelle per dimenticare. Nella "Lettione xx" della sua Plutosofia si passano in rassegna i "metodi per l’oblivione". Gesualdo esclude le soluzioni mitiche come bere l’acqua del Lete, perché sa che già Johannes Spangerbergius nel suo Libellus artificiosae memoriae (1570) ricordava che si dimentica per corruzione, e cioè per dimenticanza delle specie passate, per diminuzione (vecchiezza e malattie) e per ablazione di organi cerebrali. Parimenti è ovvio che si può per rimozione, ubriachezza, droga, ma in tutti questi casi si tratta di accadimenti naturali che vanno studiati e sono stati studiati in altra sede. Gesualdo vuole invece elaborare un’arte della dimenticanza che abbia le stesse caratteristiche di un’ars memoriae. Siccome era tipico delle artes memorandi immaginare un grande palazzo con stanze e scaloni in cui apparivano immagini mostruose, a ciascuna delle quali era associata una idea da ricordare, Gesualdo consiglia di figurarsi di peregrinare per quei palazzi in una tenebra densissima così da non poter vedere le immagini; di figurarsi quelle stanze vacue e nude di immagini; di figurarsi quelle immagini cancellate come se vi si fosse spalmata sopra una mano di gesso, o “ imaginando sopra li luoghi, tende bianche, ò lenzuoli verdi, ò panni neri, con discorrer più volte, per li luoghi, có tal velo di colori. E si possono ancora imaginare li luochi, pieni di paglia, di fieno, di legni, di merci, &c.”. E poi proponeva di pensare nel palazzo della memoria nuove figure che sostituissero le antiche, così come un chiodo scaccia l’altro; e di “imaginarsi una gran tempesta di venti, di grandini, di polve. di ruine di case, di luoghi, di tempij, d’inondatione d’acque, che confonda ogni cosa; e poi che sarà durato un pezzo questo noioso pensiero, e replicato ancora più volte, all’ultimo si facci con la mente una passeggiata per li luoghi, imaginando il tempo chiaro, quieto e tranquillo, con riveder li luoghi nudi, e vacoi , come prima furo formati, Infine si sarebbe dovuto pensare a “un’Huomo inimico, horribile, e spaventoso (e quanto più havrà del fiero, e bestiale, e nemico meglio sarà) il quale con una comitiva di compagni armati, entri e passi con impeto per li Luoghi, e con flagelli, bastoni, & armi scacci li simolacri, percuota le persone, fracassi le imagini, facci fuggire per le porte e saltar per le fenestre tutti gli animali, e persone mobili che erano nei luoghi”. Non si sa se qualcuno abbia messo in opera gli artifici consigliati da Gesualdo ma è lecito sospettare che tutti questi artifici permettessero non di dimenticare qualcosa bensì solo di ricordare che si voleva dimenticarlo, ricordandolo così con maggiore intensità – come avviene agli amanti che si sforzano di cancellare l’immagine di chi li ha abbandonati. Non può esistere un’arte volontaria della dimenticanza, e se noi o le culture dimentichiamo è sempre per fattori accidentali. Ho detto che se noi leggiamo la Poetica di Aristotele vi troviamo menzionate tante tragedie di cui non sappiamo nulla. Come mai quelle tragedie e i nomi dei loro autori non sono sopravvissuti mentre sono sopravvissuti Sofocle, Eschilo ed Euripide? Una ipotesi ingenua è che fossero i migliori. Ma i migliori secondo quali criteri? Ci sono stati motivi accidentali per cui i greci hanno preferito quei tre ad altri? Ci sono state censure? Ci sono stati episodi di corruzione per cui i tre rimasti erano per così dire i più ammanicati con i coreghi? Per motivi non del tutto evidenti la cultura ha agito da filtro, così come la nostra memoria individuale lascia cadere, magari a torto, ricordi inutili o importuni. Ma se non fosse accaduto così saremmo sopraffatti da tante tragedie per cui sarebbe difficile (in assenza di altri criteri di filtraggio) decidere quali rappresentare e quali no. In fondo anche la nozione di canone, alla quale si ricorre spesso magari per motivi giornalistici, ha questa funzione. Dobbiamo decidere se a scuola si insegna Shakespeare o Marlowe, Alfieri o Della Valle, Ariosto o Folengo, Leibniz o Wolff, il trattato sugli animali di Condillac e non quello di Bougeant – che sosteneva che gli animali erano demoni che scontavano in terra la loro perfidia. Quello che definiremmo il complesso di Temistocle ritorna varie volte nel corso della storia della cultura, e una delle manifestazioni più drammatiche è certamente la Seconda considerazione inattuale di Nietzsche, sull’utilità e sul danno degli studi storici per la vita. Il testo si apre proprio con una dichiarazione che sembra essere un’altra delle fonti del Funes borgesiano: “Ma sia nella massima, sia nella minima felicità, è sempre una cosa sola quella per cui la felicità diventa felicità: il poter dimenticare o, con espressione più dotta, la capacità di sentire, mentre essa dura, in modo non storico. Chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell’attimo dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di star ritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa sia la felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri. Immaginate l’esempio estremo, un uomo che non possedesse punto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere dappertutto un divenire: un uomo simile non crederebbe più al suo stesso essere, non crederebbe più a sé, vedrebbe scorrere l’una dall’altra tutte le cose in punti mossi e si perderebbe in questo fiume del divenire: alla fine, da vero discepolo di Eraclito, quasi non oserebbe più alzare il dito. Per ogni agire ci vuole oblio come per la vita di ogni essere organico ci vuole non soltanto luce, ma anche oscurità. Un uomo che volesse sentire sempre e solo storicamente, sarebbe simile a colui che venisse costretto ad astenersi dal sonno, o all’animale che dovesse vivere solo ruminando e sempre per ripetuta ruminazione. Dunque, è possibile vivere quasi senza ricordo, anzi vivere felicemente, come mostra l’animale; ma è assolutamente impossibile vivere in generale senza oblio. Ovvero, per spiegarmi su questo tema ancor più semplicemente : c’è un grado di insonnia, di ruminazione, di senso storico, in cui l’essere vivente riceve danno e alla fine perisce, si tratti poi di un uomo, di un popolo o di una civiltà.” (1874. tr. cit.: 264) Di qui l’analisi del danno dell’eccesso di studi storici che, avendo raggiunto una complessità e ricchezza insopportabile opprimono a tal punto la memoria di una cultura da renderla inadatta alla vita. E, sull’onda di questi richiami vitalistici, ecco l’appello ai giovani affinché elaborino un’arte della dimenticanza. Uno degli elementi d’interesse di questo testo è che esso, dopo queste dichiarazioni che sembrano riferite alle necessità di sopravvivenza di un individuo, sposta il discorso alla necessità di un oblio sistematico per le culture. Questo spostamento è d’importanza capitale perché, se è stata dimostrata l’impossibilità di dimenticare volontariamente quello che la memoria individuale ha registrato, le culture si presentano proprio come dispositivi che non soltanto servono a conservare e tramandare le informazioni utili alla loro sopravivenza in quanto culture, ma anche a cancellare l’informazione giudicata eccedente. A quasi un secolo e mezzo di distanza dal testo nietzschiano la riflessione sulla dimenticanza culturale si è moltiplicata e, senza rilanciare l’allarme eccitato di Nietzsche, appare ora normale il processo di cancellazione continuamente operato da una cultura per sopravvivere. Sono esempi di processi di dimenticanza le Enciclopedie Specializzate, che costantemente espungono le idee ritenute erronee e procedono di aggiornamento in aggiornamento. Ma altrettanto e ancor più accade con l’Enciclopedia Media di una data cultura – e per enciclopedia media intendo l’insieme delle enciclopedie vere e proprie, come la Britannica o la Treccani, più i libri cosiddetti di testo che trasmettono in fase scolastica gli elementi fondamentali dei vari saperi. L’Enciclopedia Media ci garantisce il ricordo dei grandi fatti storici o dei principi della fisica, ma lascia cadere un’infinità d’informazioni che la collettività ha rimosso, in quanto non le giudicava utili o pertinenti. Per esempio l’enciclopedia media ci dice tutto quanto occorre sulla morte di Giulio Cesare ma nulla su quello che ha fatto la sua vedova Calpurnia negli anni successivi, ci fornisce dettagli preziosi sull’andamento della battaglia di Waterloo ma non ci dice il nome di tutti coloro che vi hanno partecipato - e così via. Si tratta di "dimenticanze" utilissime, per non sovraccaricare oltre il sostenibile la memoria collettiva - senza che peraltro molti dei fatti filtrati o taciuti diventino irrecuperabili, in quanto esistono persone specializzate (come gli storici o gli archeologi) che talora sono in grado di riportarle alla luce. In tali casi talora la memoria collettiva si riappropria di quei dati reinserendoli nell’enciclopedia media, talora decide di lasciarli in qualche "riserva" specializzata. La dimenticanza-filtraggio operata dall’Enciclopedia Media non dipende né dalla volontà di un singolo né da un atto cosciente di volontà collettiva: si stabilisce per una sorta di inerzia, talora persino per cause naturali, come la cancellazione di tutto quello che concerneva Atlantide, se è mai esistita. Il problema del filtraggio operato da una Enciclopedia Media era peraltro già presente tra gli enciclopedisti medievali – anche se per tradizione ci paiono voracemente intesi a citare tutto quello che la tradizione aveva loro tramandato. Vincenzo di Beauvais, nel Libellum apologeticum che fa da introduzione al suo Speculum Majus è spaventato di fronte al moltiplicarsi della scienza ("videbam praeterea, iuxta Danielis prophetiam,… ubique multiplicata esse scientiam" (Libellum 1). Così decide di fare della sua enciclopedia un florilegio, vale a dire una scelta delle migliori sue letture. Che la sua scelta non vada immune dal sospetto di censura ci è detto dalla citazione che egli fa del decreto dello pseudo Gelasio (De libris recipienti et non recipiendis, 10), dove però pare che egli non abbia cassato le fonti disapprovate, ma solo indicato che sono tali: "denique Decretum Gelasii papae, quae scripta quaedam reprobantur quaedam vere approbantur, hic in ipso operis principio ponere volui, ut lector inter autentica et apopcripha discerenere sciat, sicque rationis arbitrio quod voluit eligat, quod noluerit reliquat". Ma si è dimostrato che certi testi vivranno ormai solo perché sono entrati nello Speculum Majus. La cultura dunque non fa altro che selezionare i dati della propria memoria. Naturalmente non è detto che lo faccia sempre con saggezza e per motivi giustificabili. Stalin cancellava dalle foto storiche i compagni che aveva mandato a morte, il Grande Fratello di Orwell correggeva ogni mattina il Times, e ho letto di recente che nelle scuole inglesi si vorrebbe abolire l’insegnamento delle crociate per non offendere la sensibilità degli scolari musulmani. Sono casi in cui una cultura, rimuovendo qualcosa che ci sarebbe stato utile, aggiunge ai danni della memoria anche quelli della dimenticanza. Come uscire da questa rischiosa contraddizione? Come evitare che, per filtrare, si corra il rischio che ha corso il Medioevo, di dimenticare per dieci secoli Platone (tranne il Timeo)? Filologicamente più avveduta delle cultura del passato, la cultura contemporanea ha elaborato l’idea di una "latenza" del sapere (Cevolini 2006: 99). Non è che le informazioni eccedenti (oggetto di Enciclopedie Specializzate – e persino quelle eccedenti rispetto a una Enciclopedia Specializzata, come per esempio la storia delle idee astronomiche provate false) vengano dimenticate. Esse sono per così dire "surgelate" e basta che l’esperto le vada a prelevare e le metta nel forno a microonde ed esse si riattualizzano, almeno ai fini della comprensione di un dato contesto. Questa latenza è rappresentata in fondo dal modello della libreria, o dell’archivio (e persino del museo) come contenitori di un sapere sempre attualizzabile anche se nessuno lo sta attualizzando, o se si è smesso di attualizzare da secoli. In tal senso ogni enciclopedia rinvia a porzioni sempre più vaste di sapere, in un gioco di rimandi che è stato definito come virtuale. Come sfondo, ecco l’enciclopedia veramente virtuale, quella Massimale. Che l’Enciclopedia Massimale abbia una propria caratteristica di virtualità non è dato solo da fatto che non sappiamo mai dove essa si arresti; è che essa contiene potenzialmente anche quello che di fatto (oggi) non contiene più. Si è detto che l’enciclopedia media non ricorda i nomi di tutti coloro che hanno partecipato alla battaglia di Waterloo. Cosa accadrebbe se uno studioso volesse ora ricostruire questa lista? Ammettiamo che abbia accesso ad archivi rimasti sino ad ora inesplorati, o che venga in possesso di un testo simile all’elenco dei Mille garibaldini partiti da Quarto con Garibaldi (ora disponibilissimo persino in Wikipedia). Questo studioso farebbe ricorso a porzioni dimenticate e rimosse dall’Enciclopedia Media ma che appartengono pur sempre all’Enciclopedia Massimale. Ma a quale Enciclopedia appartengono i testi delle tragedie che Aristotele cita ma che noi abbiamo perduto? Per ora fa parte dell’Enciclopedia Media (o di una Enciclopedia Specializzata) solo la notizia che Aristotele ha citato il mero titolo di queste opere. Se un giorno (come è avvenuto per i manoscritti di Nag Hammadi) si reperissero alcuni di questi testi in una giara, risulterebbe che essi facevano parte dell’Enciclopedia Massimale, anche se nessuno prima di allora avrebbe potuto asserirlo, e che da quel momento faranno parte di una o più Enciclopedie Specialistiche. Ma cosa accadrebbe se invece essi non venissero mai reperiti e continuassimo a conoscerli solo attraverso i loro titoli? Per il fatto stesso che ci sono buone ragioni per credere che siano esistiti, continueremmo a pensare che essi potrebbero far parte dell’Enciclopedia Massimale, anche se per ora ne fanno parte solo in modo virtuale e ottativo - ovvero ne fanno parte ma solo nel mondo possibile in cui siano stati reperiti, o ne facevano parte dell’Enciclopedia Media dei tempi di Aristotele. Quindi l’Enciclopedia Massimale, se il termine con cui la stiamo designando lascia pensare a qualcosa cujus nihil majus cogitari possit, di fatto è una struttura virtualmente a fisarmonica, che un giorno potrebbe allargarsi più di quanto oggi non appaia. Il che è non piccolo incoraggiamento a una ricerca progressiva. In conclusione, se le culture sopravvivono è anche perché (attraverso i loro testi fondatori) hanno saputo alleggerirsi ponendo in latenza tante nozioni, garantendo ai propri membri una sorta di vaccinazione dalla Vertigine del Labirinto e dal complesso di Temistocle/Funes. Ma per le stesse ragioni le culture hanno spesso costruito testi che servivano a far dimenticare nozioni o principi essenziali. Si potrebbero analizzare le varie culture considerando quei testi che hanno contribuito a cancellare una serie di nozioni dalla sua Enciclopedia Media. È stata la polemica rigorista di tanti padri della chiesa che ha fatto cadere nel dimenticatoio tanti testi della cultura pagana, che il Rinascimento ha poi riscoperto (ironia dei processi di cancellazione) in quelle librerie monastiche dove erano pur stati conservati. È stato l’eccesso di testi di histoire événementielle che ha fatto trascurare migliaia di dati di una storia dei rapporti materiali – che solo a fatica scuole storiografiche successive sono andate a ricuperare nei meandri dell’Enciclopedia Massimale. Conosciamo le tecniche di quella che potremmo chiamare la dimenticanza indotta a fini di dominio, dalla censura vera e propria (abrasione di manoscritti, rogo di libri, damnatio memoriae, falsificazione delle fonti documentarie, negazionismo) insieme ai fenomeni di oblio per pudore, inerzia, rimorso, sino a quei procedimenti in atto nelle scienze esatte dove si decide che non solo le idee provate errate ma persino gli sforzi e i procedimenti messi in opera per arrivare a quelle considerate giuste, vengono espulsi dall’enciclopedia specializzata di quella tale scienza perché inutili, e ormai in certi settori disciplinari si arriva a non prendere in considerazione ogni contributo pubblicato prima degli ultimi cinque anni (vedi Paolo Rossi, "La storia della scienza: la dimenticanza e la memoria". In Lina Bolzoni et al. eds., Memoria e memorie, Firenze, Olschki 1998). Rossi parlava della letteratura delle scienze cosiddette dure, ma il fenomeno sta ormai dilagando, almeno oltre oceano, anche per le discipline umanistiche. Passi per la fisica nucleare, ma per la storia della filosofia questo provoca effetti paradossali: ho letto (e quasi venti anni fa) un libro americano in cui si sviluppava un certo ragionamento e si rimandava alla nota a piè di pagina. “Pare che di questo argomento si fosse occupato a fondo Kant. Cfr. Brown 1991”. L’autore aveva in bibliografia solo Brown, perché Kant apparteneva a una bibliografia scaduta. Per reagire a questi eccessi di dimenticanza le culture devono pertanto alleggerire la nostra memoria attraverso versioni ridotte dell’enciclopedia, ma al tempo stesso debbono garantire la ricuperabilità di ciò che è stato cancellato attraverso i propri archivi, dove le informazioni per ora inutili restano in latenza in attesa di essere riscoperte come utili. Che le culture alleggeriscano le proprie enciclopedie è fenomeno fisiologico e positivo. Ma a patto che si possa sempre ricuperare quello esse hanno posto in latenza. Per questo l’idea regolativa di Enciclopedia Massimale è ausilio potente per l’Advancement of Learning . Torniamo al nostro infelice ragazzo che accusava i bersaglieri della strage di Bologna. nell’immenso ammasso di notizie irrilevanti da cui è sommerso quotidianamente attraverso la tv, Internet, facebook, twitter, gli sms con cui gli amici gli comunicano di aver appena inviato un email, la pubblicità e infiniti altri appelli consumistici – il nostro soggetto è divenuto incapace di isolare le notizie essenziali. Tende a dimenticare ciò che dovrebbe ricordare, a confondere tra loro notizie di cui gli sfugge ormai la portata e a ricordare ciò che non gli serve. Qualcuno dovrà insegnargli una nuova arte della memoria e della dimenticanza, non solo, ma dovremmo insinuargli nella mente che una volta dimenticato il dimenticable e filtrato il filtrabile potrebbe scoprire anche il gusto del ritrovamento, dell’esplorazione dei repositori della latenza… Come ottenere questo risultato, e se debba ottenerlo ancora la scuola o qualche altro tipo di istituzione, ve lo dirà spero qualcun altro in un prossima conferenza. Provando e riprovando, forse ci arriveremo.