Maurizio Maggi, l’Espresso 21/4/2011, 21 aprile 2011
TUTTI A COMPRARE I-BOND
Due termini inglesi di cui sentiremo parlare sempre più spesso: "inflation linked", collegato all’inflazione. Dopo che la Banca centrale europea, il 7 aprile, ha ritoccato all’insù il tasso d’interesse all’1,25 per cento, con l’obiettivo di rallentare il cammino dei prezzi al consumo, aumentano i risparmiatori che si chiedono se non sia arrivato il momento di proteggere il portafoglio facendo scendere in campo qualcuno capace di giocare nel ruolo di stopper di un’eventuale inflazione al galoppo. Come, appunto, le obbligazioni legate all’inflazione. Pare che nei colloqui tra gli investitori privati abituati a monitorare da vicino il proprio tesoretto e i loro consulenti quelle due paroline inglesi vengano citate con crescente frequenza. I risparmiatori più avveduti, in realtà, a inserire nel loro giardinetto mobiliare qualche strumento studiato apposta per aumentare il rendimento in caso di risalita dell’inflazione ci hanno già pensato da qualche mese. Non solo attraverso i titoli di Stato italiani o di altri Paesi europei, ma pure con i fondi comuni d’investimento specializzati e gli Etf (Exchange traded fund). Nei portafogli preparati per "l’Espresso" da quattro esperti la categoria "inflation linked" è stata puntualmente inserita, con pesi compresi tra il 20 e il 30 per cento. Secondo Matteo Astolfi di M&G Investments, per esempio, i fondi d’investimento "inflation linked" piacciono soprattutto agli imprenditori, che per primi si rendono conto dell’avanzare dell’inflazione. I numeri confermano un gradimento in decisa crescita.
A fine 2010 soltanto i bond legati all’inflazione messi sul mercato dagli Stati e da enti governativi avevano superato la quota di 1,4 miliardi di euro. Un terzo di tutte le emissioni pubbliche arriva dagli Stati Uniti, seguiti da Regno Unito (21 per cento), Francia (11 per cento) e Italia (8 per cento). Anche i mercati emergenti - dove peraltro l’inflazione è più alta che nel mondo occidentale - risultano attivi su questo fronte, col 14 per cento dell’intero mercato. "Più della metà di un portafoglio prudente la immagino tuttavia in obbligazioni a tasso variabile, tipo i Cct, oppure emessi da banche che hanno già fatto l’aumento di capitale. Mai, comunque, con durate oltre i 4 o 5 anni", suggerisce Claudia Vacanti di Banca Generali.
Nonostante i titoli dei giornali e il primo rialzo dei tassi deciso dalla Bce dall’agosto del 2008, però, a livello di massa i risparmiatori italiani ancora non paiono troppo preoccupati per il ritorno dell’inflazione. "Mi sembrano più allarmati coloro che hanno i mutui sulla casa a tasso variabile che non i risparmiatori in genere. Tra l’altro, gli italiani sono tendenzialmente avversi al rischio. In molti altri Paesi viene considerato prudentemente bilanciato un portafoglio suddiviso al 70 per cento in azioni e al 30 per cento in obbligazioni. In Italia le percentuali sono invertite", sottolinea Gabriele Miodini di Aviva Investors. Il quale consiglia agli investitori moderati di mantenere comunque una quota in azioni, con preferenza sui mercati emergenti e sull’Europa. Anche per Enrico Camerini di Credit Suisse c’è poca consapevolezza del rischio-inflazione. Il suo suggerimento è di piazzare appena una spolverata in azioni, magari un 5 per cento in un fondo investito a livello mondiale, e di collocare il grosso del portafoglio in obbligazioni con rendimento legato al tasso Euribor oppure, ancora meglio, al cosiddetto Eonia. I due acronimi significano, rispettivamente, Euro Interbank Offered Rate (il tasso medio d’interesse con cui le principali banche europee effettuano le operazioni interbancarie di scambio di denaro nell’area dell’euro) e Euro Over Night Index Average (il tasso di interesse interbancario per un giorno). Lasciando da parte i tecnicismi, va segnalato che i titoli collegati a questi due indici rendono poco, specie se hanno durate brevi, e spesso non coprono l’attuale inflazione italiana, che è del 2,5 per cento. In uno scenario di tassi in rialzo, sono comunque rassicuranti - agli occhi del risparmiatore interessato soprattutto a non perdere - perché garantiscono dall’arretramento della quotazione. A chi ha come obiettivo principale il catenaccio va ricordato che i Bot a tre mesi offrono circa l’1,10 per cento annuo lordo, quelli a sei mesi l’1,45 e quelli annuali l’1,95. Rendimenti che sono ben lontani dall’andamento dei prezzi al consumo e ai quali vanno peraltro sottratti il 12,5 per cento di tasse e i costi per la gestione del dossier titoli.
I ricchi, invece, all’inflazione ci pensano. E non si affidano soltanto alle obbligazioni o ai fondi obbligazionari connessi con il trend dei prezzi al consumo. "La clientela benestante che si rivolge al private banking tende a considerare tra le alternative possibili per proteggere il proprio capitale dal rischio inflazione una delle opzioni più antiche: l’oro", sottolinea Alessandro Ravogli di Banca Imi. "Io piazzerei almeno il 10 per cento di un giardinetto anti-inflazione nelle commodities, puntando anche direttamente su società come la norvegese Statoil, la brasiliana Petrobras, l’americana McMoran Exploration, attive nell’energia", dice Tommaso Federici di Ifigest. Le materie prime piacciono anche a Patrizio Pazzaglia di Insinger de Beaufort, anche se crede che il greggio abbia corso troppo e sia meglio puntare su rame e grano. Pazzaglia, come la maggioranza degli esperti, anche in chiave anti-inflazione ritiene tuttavia fondamentale posizionare una fetta più o meno importante del patrimonio in azioni. "Stando sulle Borse europee fino a che l’euro non arriva a 1,50 sul dollaro, per poi far rotta verso Wall Street, evitando sempre le società più indebitate che soffrono per il rialzo dei tassi", suggerisce. "Vedo bene i titoli delle banche, perché l’aumento dei tassi accresce il loro margine d’intermediazione", aggiunge Franco Niccoli di Investitori Sgr (Gruppo Allianz). Parzialmente fuori dal coro è la voce di Danilo Verdecanna di State Street Global Advisors Italia, che dice: "In caso di aumento dell’inflazione, nel breve periodo le azioni non sono raccomandabili. Sono decorrelate all’inflazione: se questa sale, loro scendono. E poi, crescendo i tassi nominali, le aziende indebitate a tasso variabile spendono di più per finanziarsi, con una riduzione dei profitti che fa scendere le azioni. Infine, le imprese soffrono l’aumento dei costi delle materie prime e solo successivamente riescono ad adeguare il prezzo dei beni". Ecco perché, sostiene Verdecanna, le azioni non proteggono nell’immediato ma nel medio-lungo-periodo, quando le aziende aggiustano la struttura finanziaria al nuovo scenario.
Per Ravogli di Banca Imi, l’Italia sarebbe comunque al riparo più di altre nazioni dai rischi di una ripresa inflattiva, perché buona parte della ricchezza delle famiglie è investita nella casa. "E comunque", conclude , "non è facile per un investitore preoccupato dall’inflazione difendersi da un aumento dei prezzi. Un esempio? Se il prezzo del greggio sta fermo, ma il costo della benzina aumenta per colpa di nuove accise, non c’è strumento finanziario in grado di rendere meno caro il pieno di carburante".