MARCO ALFIERI, La Stampa 15/4/2011, 15 aprile 2011
Ma il fondo per le Pmi non riesce a decollare - Il piatto piange. Tre operazioni in un anno, una selva di interessi e la difficoltà di soddisfare le attese delle Pmi spossate dalla crisi peggiore degli ultimi 50 anni
Ma il fondo per le Pmi non riesce a decollare - Il piatto piange. Tre operazioni in un anno, una selva di interessi e la difficoltà di soddisfare le attese delle Pmi spossate dalla crisi peggiore degli ultimi 50 anni. Vita grama per il fondo italiano d’investimento, che festeggia il primo compleanno. La sua storia comincia paradossalmente da un rifiuto. A settembre 2009 Unicredit e Intesa Sanpaolo, nel pieno dello tsunami globale, vanno da Giulio Tremonti a dire che rifiutano i suoi bond. Il ministro s’infuria: li aveva congegnati per alleviare il credit crunch dell’economia reale. Per compromesso nasce il fondo Pmi: in surroga ai bond governativi si punta a sostenere i processi di ricapitalizzazione, crescita e aggregazione delle imprese italiane con la formula soldi privati e sponsorship pubblica. In sostanza Intesa Sanpaolo, Unicredit e Monte dei Paschi, insieme a Cassa Depositi e Prestiti, decidono di investire 250 milioni a testa in un fondo di private equity gestito da una costituenda Sgr. Con i chip messi dalle banche popolari il capitale gestito sale a 1,2 miliardi (da statuto può arrivare a 3): 600 milioni per investimenti diretti e altrettanti in veicoli simili (fondo di fondi) che stanno nascendo dal Piemonte alla Lombardia. Rispetto a un fondo tradizionale il Tesoro fissa però dei paletti: un tempo di investimento più lungo (5 anni), niente leva finanziaria (solo aumenti di capitale), ingressi con quote di minoranza e un ritorno sull’investimento più basso della media di mercato. L’obiettivo è favorire lo sviluppo del capitale di rischio in un Paese eccessivamente bancocentrico, popolato da padroncini refrattari a crescere per paura di perdere il controllo della ditta. Il 18 marzo 2010 viene costituita la società e nominato il cda presieduto da Marco Vitale. Regista tremontiano della partita è Andrea Montanino, brillante dirigente generale del Tesoro. Il 24 agosto Banca d’Italia autorizza la Sgr e il regolamento del Fondo. A metà novembre Fii è finalmente operativo: Tremonti e Emma Marcegaglia lo presentano in pompa magna in Assolombarda. Il più grande fondo Pmi d’Europa «è la cosa giusta al momento giusto», gongola il ministro. «Creerà e salverà posti di lavoro». Pescando nel bacino delle 15 mila imprese italiane con fatturato tra 10 e 100 milioni. Il nerbo del nostro capitalismo. Eppure a un anno dal suo battesimo il fondo ha chiuso solo tre progetti (altri 4 verranno deliberati la prossima settimana): 6 milioni investiti nella varesina Arioli (macchine per finissaggio tessile), che attraverso l’aumento di capitale ha acquisito l’austriaca Mhm, leader mondiale nelle macchine da stampa per magliette; 7,5 milioni investiti per il 30% della romagnola Comecer (macchine per la medicina nucleare) e altri 6,7 nella veneziana Bat (tende da sole). Peccato veniale se fosse solo un ritardo temporale, il rodaggio iniziale è fisiologico nelle start up. I nodi veri sono altri. «Ci sono problemi autorizzativi», ha sibilato l’altro giorno da Lecco la stessa Marcegaglia. «Strumento utile, ma ha limiti strutturali», abbozza un banchiere. Anche dal Tesoro non si nasconde un pizzico di insoddisfazione. Che succede al Fondo tanto caro a Tremonti? «Nei mesi della crisi è stato venduto alle imprese come uno strumento immediato e di massa, in sostituzione dell’abbattimento dell’Irap», racconta un consigliere di amministrazione. Confindustria l’ha cavalcato con la base, Tremonti l’ha speso mediaticamente. Su questo equivoco si è alimentata un’aspettativa abnorme (in poche settimane sono arrivate 400 domande di intervento). Il punto è che questi strumenti sono per definizione rigidi e selettivi. Prima di investire bisogna studiare i dossier, fare due diligence sui bilanci non sempre facili delle Pmi. E poi nello scenario base il fondo dovrebbe fare 70-100 investimenti diretti in 5 anni. Significa 18-20 operazioni l’anno. «Numeri altissimi», spiegano alcuni tecnici. «Già farne 10-12 sarebbe un successone». Nel 2010 tutti i fondi di private equity italiani hanno chiuso 9 operazioni con Pmi. «Al contrario, sarebbe un fallimento», spiegano fonti in Cdp. «Bisogna alzare il tetto». Magari abbassando l’asticella sotto i 10 milioni di fatturato, dove sta il grosso del capitalismo diffuso, è il desiderata di Confindustria. Probabilmente l’unico modo funzionale sarebbe al contrario alzare gli investimenti oltre 100 milioni, per rafforzare la testa delle filiere e fare aggregazioni. Ma per farlo bisogna individuare i settori strategici, respingere le distorsioni politiche e il rischio di dare soldi a pioggia per accontentare le territoriali di Confindustria che fanno a gara per portare almeno una propria azienda a lavorare con il Fondo. Insomma è un incastro difficile tenere insieme la fregola tremontiana di portare a casa un risultato tangibile, moltiplicando le operazioni; l’impazienza di Marcegaglia, pressata dalla base, che vorrebbe allargare la platea dei papabili; le banche refrattarie a concessioni a babbo morto e, a sua volta, il Tesoro che invita i big del credito a riconoscere il valore sistemico di una crescita patrimoniale di corporate Italia. «Perché certe liturgie da private equity, francamente, vanno bene fino ad un certo punto...».