MASSIMO GRAMELLINI, La Stampa 15/4/2011, 15 aprile 2011
Benigni: il mio Dante nel bordello italiano - Bello da perderci il sonno, questo Canto VI del Purgatorio che stasera Roberto Benigni srotolerà da par suo davanti ai novemila del Pala Isozaki di Torino, nell’evento culminante della prima giornata di «Biennale Democrazia»
Benigni: il mio Dante nel bordello italiano - Bello da perderci il sonno, questo Canto VI del Purgatorio che stasera Roberto Benigni srotolerà da par suo davanti ai novemila del Pala Isozaki di Torino, nell’evento culminante della prima giornata di «Biennale Democrazia». Il folletto si è addormentato verso le cinque del mattino, lui dice per l’emozione procuratagli dall’impatto con la città ancora tutta imbandierata di tricolore. Ma a noi piace immaginare l’insonne sdraiato sul letto della sua camera d’albergo torinese, mentre rimugina all’infinito quell’invettiva dantesca senza tempo e senza pace «Ahi serva Italia, di dolore ostello... non donna di province, ma bordello» - cercando, e non è facile, qualche aggancio con la fulgida attualità. Il canto più politico della Commedia si svolge nell’Antipurgatorio ed esordisce con l’immagine giocosa e un po’ inquietante di un vincitore di dadi strattonato dalla folla smaniosa di toccarlo e forse anche di spillargli il denaro appena guadagnato. Un paragone che serve a Dante per descrivere la ressa di questuanti spirituali da cui è circondato. Sono le vittime degli omicidi di Stato, fra le quali spicca il magistrato Benincasa da Laterina, strangolato «da le braccia fiere» di un brigante assai popolare, Ghino di Tacco. In quei tempi sventurati succedeva infatti che potenti e ribaldi della peggior risma si accanissero contro coloro che applicavano la Legge. L’assassino venne riabilitato da Bettino Craxi, che lo elevò a proprio alter giornalistico. Nessuna notizia invece del magistrato ucciso: Benigni sta indagando. Un’ipotesi è che il povero Benincasa stazioni ancora nell’Antipurgatorio in attesa di ottenere piena riabilitazione dall’avvocato di Ghino (Ghedino?). Il Poeta e il Folletto procedono a grandi balzi verso il fulcro del canto VI: il G2 dei poeti mantovani, ovvero l’incontro fra Virgilio e il trovatore Sordello, la cui immagine altera è racchiusa in un verso immenso, «a guisa di leon quando si posa». Nell’assistere all’abbraccio fra i due grandi morti, divisi da tredici secoli ma accomunati dalla stessa patria, Dante è colto da una commozione che diventa subito rabbia nei confronti dei vivi. L’irritazione sfocia nella celebre invettiva sulla «serva» Italia «nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province [regina, ndr], ma bordello». Certi riferimenti, si pensi per esempio al bordello, risultano abbastanza incomprensibili a un lettore contemporaneo e Benigni sa di doverne tenere conto nella sua esposizione. Ma evidentemente nel Trecento gli italiani apparivano proprio così: una banda di sudditi faziosi perennemente in lite fra loro (nulla a che vedere con la serena compostezza di cui danno prova oggi nei talk show). Rissosi, divisi, senza pace né legge. Peggio, con troppe leggi non rispettate da nessuno. Il Poeta sputa fiele contro la Chiesa (del Trecento, ovvio), che ficca il naso nelle cosacce della politica anziché occuparsi dell’oggetto della ditta: i temi spirituali. E non risparmia unghiate al potere laico, incarnato dall’Imperatore tedesco, colpevole di menefreghismo e debolezza. Tale è la rabbia che Dante arriva a inalberarsi anche un po’ con Dio: «Son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?», gli chiede. Oppure, continua, stai preparando all’Italia un bene di cui non abbiamo ancora consapevolezza? (e qui sembra evidente l’allusione alla futura venuta di Scilipoti). Ma i motti più feroci il Poeta li riserva alla sua Firenze, dove la giustizia vibra nel cuore e sulle labbra di tutti, eppure non si realizza mai (la famosa politica degli annunci, assai diffusa a quell’epoca). Davvero arcaica, questa «Fiorenza» medievale, affamata di poltrone e prebende pubbliche, naturalmente per spirito di servizio: «Molti rifiutano lo comune incarco; ma ’l popol tuo solicito risponde sanza chiamare, e grida: "I’ mi sobbarco!”». Persino i legislatori di Atene e Sparta - infierisce Dante come il trapano su una carie - scompaiono di fronte ai cari fiorentini, che emanano provvedimenti così «sottili» che quelli partoriti nel mese di ottobre non arrivano a metà novembre. Un effetto della prescrizione breve? Queste leggi che cambiano di continuo perché nulla cambi, a noi moderni fanno venire in mente il Gattopardo. A Dante invece ispirano l’immagine che chiude il Canto VI: Firenze descritta come una malata che si rigira nel letto, illudendosi così di rimediare al suo male. Per dare l’idea, sarebbe come se negli ultimi vent’anni gli italiani avessero votato Silvio, e poi Romano, e poi di nuovo Silvio, e poi di nuovo Romano, e poi ancora Silvio, ogni volta nella speranza di guarire e ogni volta con la sensazione di stare sempre peggio. Ai cittadini sofferenti, i sistemi politici del passato non concedevano altra soluzione che un cambio di regime o di maggioranza, quasi che il ribaltone bastasse a far cessare il dolore. Possibile che la democrazia non sia riuscita a inventarsi niente di meglio? Da perderci il sonno, davvero. Ma non badateci: è solo una metafora. Stasera l’insonne Benigni saprà regalarcene una migliore.