Carlo Petrini, la Repubblica 15/4/2011, 15 aprile 2011
SE LA FABBRICA DELLA BISTECCA PRODUCE ANCHE LO SHAMPOO
«Qui i giovani che vogliono fare agricoltura pulita non possono tornare in campagna, perché manca la terra» e «La nostra prima difficoltà è l´accesso alla terra». Sono frasi che ho sentito in diverse zone d´Europa, dall´Emilia alla Bretagna. Sembra di tornare indietro nel tempo, quando i contadini si scagliavano in violente rivolte per il diritto alla terra. Invece parliamo dell´oggi e dei nostri "vizi" alimentari.
Sono cose che sento dire in zone in cui è molto sviluppato l´allevamento intensivo bovino, di pollame e soprattutto suino. Territori in cui ci sono più maiali che abitanti, come la Provincia di Cuneo, pezzi di Romania o la Danimarca. Allora è facile fare due più due.
Il metodo di allevamento intensivo prevede l´ottimizzazione degli spazi, una standardizzazione di tutti i processi e una riduzione dei costi. È un´attività che segue i crismi della produzione industriale. Siccome però parliamo di animali vivi e non di bulloni, sorgono molti problemi. C´è bisogno di una normativa: per garantire il benessere degli animali; per far sì che non si abusi di antibiotici; per regolare la filiera (questi animali viaggiano più di molti uomini: magari nascono in Olanda, passano per la Germania, s´ingrassano in Provincia di Cuneo e poi diventano prosciutti a Parma). Anche lo smaltimento di liquami degli animali va controllato. Le deiezioni da allevamenti intensivi sono un problema grave. Potrebbero fertilizzare i suoli, infatti si spargono nei campi, ma quando si supera il limite la terra non riesce a metabolizzare tutto. Producono azoto, che sarebbe un concime, ma quando ce n´è troppo finisce nelle falde acquifere in forma di nitrati che rappresentano un problema per la salute. Sarà per questo che in Bretagna mi hanno sconsigliato di bere dal rubinetto.
Esiste una "direttiva nitrati" europea, che compie vent´anni, e che in Italia abbiamo iniziato a recepire, a suon di deroghe, soltanto pochi anni fa. Prevede che non s´immettano più di 170 kg di azoto per ettaro, il che significa che per ogni capo deve corrispondere un sufficiente quantitativo di terra per lo smaltimento. Per capirci, è necessario un ettaro ogni 2 o 3 bovini. Per molti anni ciò è stato disatteso e ora bisogna correre ai ripari. Come? Procurandosi terre a tutto spiano.
Comprare o affittare la terra è quindi diventato un´impresa impossibile in questi luoghi. Come se non bastasse, ci si è messa di mezzo la recente frenesia per gli impianti fotovoltaici a terra o per la produzione di biogas. Un allevatore della provincia di Cuneo mi raccontava che il prezzo d´affitto era di 550 euro per ettaro. Le imprese che realizzano impianti fotovoltaici arrivano a offrire 1500 euro: non c´è più partita. Così la terra muore non solo per nitrati, ma anche per la desertificazione che provocano questi impianti posti su terra fertile senza i dovuti accorgimenti: un disastro nel disastro.
Vien da pensare che almeno gli allevamenti intensivi producano grandi profitti, ma non sono mai stati in crisi come oggi. Non si è mai visto un numero così grande di stalle chiudere, di aziende agricole fallire. Le stalle di bovini italiane nel 1990 erano 318.000, nel 2007 sono scese a 145.000, il tutto a fronte dell´aumento del numero dei capi in media per azienda passato da 24 a 42. Una concentrazione che si riflette anche nella fase del macello: dal 1990 al 2000 i macelli sono scesi da 5000 a 2200.
Intanto i prezzi della carne sono crollati, a vantaggio di grandi gruppi industriali come mangimifici o immense cooperative. Il sistema è oggi un´unica grande industria e gli allevatori diventano i suoi operai: il grande gruppo possiede gli animali, li dà da allevare, fornisce i mangimi e poi li ritira per avviarli al macello e magari seguirli fino allo smercio. Si è calcolato che soltanto il 20% di ciò che paghiamo finisce all´allevatore, il resto è appannaggio di questa "catena di smontaggio animali".
Ma cari lettori, non indignatevi senza un esame di coscienza perché siamo noi che finanziamo questo sistema. Gli italiani consumano in media 250 grammi di carne al giorno pro-capite, 92 chili all´anno. Le quantità consigliate dal punto di vista nutrizionale e della salute, si aggirano sui 500 grammi a settimana: non è una buona abitudine. E vogliamo spendere sempre meno, quindi siamo noi a far tendere il sistema verso maggiori velocità e quantità prodotte, verso l´intensivo che fa aumentare i costi per l´ambiente, la salute, gli animali e gli agricoltori. Produrre un chilo di manzo equivale a produrre gas serra pari a un viaggio di 250 Km in automobile. Chi paga questi costi?
Influenziamo il sistema con le nostre scelte e il sistema influenza noi, perché siamo diventati dei consumatori che non conoscono più il prodotto: per esempio siamo diventati filetto-dipendenti. Un bovino vivo pesa 700 chili, i tagli di lombata 35 chili, il filetto cinque o sei, dove finisce il resto? Non siamo più abituati a consumare tutto l´animale, abbiamo perso l´abitudine al quinto quarto - le frattaglie come trippa o altri organi interni - ma anche ai tagli meno nobili come spalle e stinchi. È colpa nostra o dell´industria, che intanto con gli scarti di macellazione riesce a fornire altre filiere di prodotti di consumo non alimentari, come shampoo, adesivi, laminati, creme e cosmetici, lozioni, coloranti o filtri per l´aria tanto per citarne solo alcuni? A questo punto forse non è più il caso di cercare un colpevole, cominciamo da noi stessi. La formula è semplicissima: bisogna mangiare meno carne, pagarla il giusto e che sia migliore, più buona per noi, sostenibile per l´ambiente e giusta per gli allevatori. Non è certo al sistema di allevamento intensivo che quindi dobbiamo guardare, ma agli esempi virtuosi che resistono eroicamente. Allevamenti di razze autoctone, produzioni su scala locale, chi rispetta il benessere animale e cresce con ritmi e alimentazione più naturali le bestie: se mangiassimo meno carne state tranquilli, ce ne sarebbe a sufficienza per goderne tutti, a partire dalla terra.